È mentre riascolti per l’ennesima volta il suo disco del 2016 A Seat at the Table – pietra angolare di un nuovo inizio che si lasciava alle spalle i deboli quando non inconsistenti e incerti esordi pop all’ombra della sorella maggiore Beyoncé – e arrivi all’undicesima traccia, Where do we go, che davvero ricordi, con una precisione che quasi ti lascia senza fiato, la grandezza e la bellezza di un disco con cui la cantante e autrice texana aveva incantato il pubblico e presosi – quasi con leggerezza e naturalezza – il suo posto nell’universo della musica e quello – non meno importante in un’ottica personale – all’interno della grande famiglia Knowles/Carter.
A distanza di tre anni da allora, Solange sembra quasi rispondere a quella domanda con il suo nuovo lavoro di studio. Attesissimo già alla fine dello scorso anno – e con quella deadline legata al suo nome sul grande billboard del Primavera Sound Festival che ne limitava i contorni temporali di uscita – When I Get Home non lascia alcun margine di dubbio, merito di una lingua – quella inglese – in grado di separare la distanza enorme che esiste tra qualsiasi casa e la propria, l’unica cui si appartiene davvero.
E per Solange la casa è un luogo preciso nello spazio: il Third Ward di Houston. Eppure, come tutto ciò che riguarda la propria infanzia e le proprie radici, home è anche un luogo che nella memoria – e nel tempo che trascorre – si lascia ammaliare da un incantesimo più frastagliato, sfumato e immaginifico che avvolge – in uno spirito seducente – il rapporto in costante cambiamento tra ciò che siamo e tutto ciò che ci lega alla parte più autentica di noi stessi.
Solange lo confessa fin dal principio con i due minuti di Things I Imagined che aprono il disco e durante i quali il mantra di un’unica frase – I saw a things I imagined – è ripetuto su un tappeto affidato al piano elettrico e ai synth, con la voce che viene modulata in appena percettibili contrazioni e dilatazioni temporali all’interno di un paesaggio sonoro in cui dialogano lo Stevie Wonder più intimo e marginale (quello di Journey through the Secret Life of Plants) e il Frank Ocean di Blonde.
Sguardo sulla propria città e insieme ridefinizione del suo ruolo all’interno di una sempre più vacillante società americana, When I Get Home fin dalle prime note sembra voler abbandonare la dichiarata militanza che animava – splendidamente – l’opulenta tavola imbandita del disco precedente. Se, dunque A Seat at the Table era apparso un rigoglioso banchetto soul capace di raccogliere intorno a sé una rinnovata ed elegante discussione non solo musicale intorno alla missione di una nuova musica black (che la sorella Beyoncé aveva anticipato solo qualche mese prima declinandola secondo il suo stile con l’esplosione ricchissima e riottosa di Lemonade, per poi riprendere lo stesso filo con il lavoro a due con il marito Jay-Z – Everything Is Love – come The Carters, la scorsa estate), il nuovo When I Get Home, pur restando in quella scia – che ormai ben definisce la voce autorale a tutto tondo di Solange – è un disco che manifesta in ogni suo risvolto un approccio differente.
When I Get Home è un album stratificato, complesso; un mosaico che abbandona liriche elaborate per dedicarsi maggiormente alla ricerca del suono e all’aspetto prettamente musicale: soul, jazz, R&B, hip-hop, funk, trap a incorniciare – come nell’incipit – numerose ripetizioni di una stessa frase e che rinuncia – di fatto – alla presenza di veri o potenziali singoli capaci di trascinare il disco (Down with the Clique, Way to the Show, Stay Flo, Almeda, My Skin My Logo sono tutti grandi pezzi ma non possono reggere all’impatto con quei brani come Weary, Cranes in the Sky, Don’t Touch My Hair e Where Do We Go che erano la grande spina dorsale di A Seat at the Table) per concentrarsi molto di più sulle atmosfere, su suoni avvolgenti che fanno di When I Get Home un disco da ascoltare tutto di un fiato ma che – allo stesso tempo – ha davvero bisogno di molti ascolti affinché ci si possa orientare nella trama di rimandi e di variazioni che lo rendono, sì, un affresco etereo e frammentato ma anche un lavoro di assoluto fascino.
Smarcandosi dal canto muscolare della sorella e dal suo impatto mediatico e popolare, Solange continua a essere l’alfiere di un soul sporcato continuamente dalle contaminazioni che la contemporaneità è in grado di apportare a tutti i diversi aspetti della musica black, senza abbandonare praticamente mai – nemmeno nei molteplici interludi che caratterizzano l’album (un’attitudine che riguarda ormai sempre più artisti come Frank Ocean, Blood Orange etc.) – un’atmosfera costantemente onirica e surreale.
Una conferma di quest’approccio è arrivata a poche ore dall’improvvisa uscita dell’album con la comparsa online su Apple Music del visual album che accompagna il disco, un mediometraggio di trentatré minuti accreditato alla stessa Solange che rinuncia a ogni intento narrativo e didascalico per farsi raccolta d’immagini e sequenze anche qui di notevole eleganza formale – e che lambisce i confini della video arte (Solange è stata la protagonista di alcune performance al Guggenheim e alla Tate Modern) – che ci riportano, seguendo le atmosfere del disco, dentro le sue radici di ragazza di colore nella natia Houston.
When I Get Home nasce proprio da una grande casa affittata a Houston, in Wichita Street “per riallineare mente e corpo” per poi tornare a fare musica. Il suo quartiere è diventato così una sorta di àncora capace di tenerla ferma e di rimetterla in pista mentre s’immergeva nella musica di artisti del calibro di Sun Ra e Alice Coltrane.
È un racconto musicale fatto di veri e propri schizzi musicali, idee accennate quindi subito ritirate, composizione di bozzetti che – uniti da incredibili passaggi sonori – ne costituiscono in fondo la cifra più chiara ed evidente. Solange passa con inesauribile talento ed eleganza attraverso una varietà di registri vocali che si fanno di volta in volta eterei, sensuali, eleganti, leggerissimi nel suo falsetto ma anche conturbanti e istintivi lì dove sfruttano le note più calde e conturbanti della sua voce – e insieme quasi adolescenzialmente ironici – come in My Skin My Logo con l’amico Gucci Mane. Un brano dal sapore jazzy in cui predominano la voce di Solange come anche il basso e la produzione di Tyler, The Creator e del chitarrista di Compton, Steve Lacy.
In un disco dominato da sonorità che spesso si fanno carico della seduzione di certo soul anni settanta (Dreams, Down with the Clique) numerosi sono gli artisti chiamati a raccolta dalla cantante texana.
Girls getting down every day (Hold up) / Working out of town on the floor (Hold on) / Making pain, swear you gonna go / Niggas get down and they feel it on they face / Motherfucker I’m down, down, down, don’t you know
Se Metro Boomin (uno dei producer che sta dietro il sound di Atlanta) impreziosisce Stay Flo in cui Solange scioglie su un tappeto di beat un rosario di frustrazioni della condizione dei neri d’America, a confezionare il soul zuccheroso di Dreams – che non sfigurerebbe certo in un disco della sorella – ci pensa un tris d’assi: Christophe Chassol (accanto ad alcuni nomi dell’electro-pop francese come Sebastian Tellier e i Phoenix e vicino all’ambiente di Frank Ocean), Devonté Hynes – vale a dire Blood Orange – e l’Earl Sweatshirt dell’osannato Some Rap Songs.
Brown liquor, brown liquor / Brown skin, brown face / Brown leather, brown sugar / Brown leaves, brown keys / Brown creepers, brown face / Black skin, black braids / Black waves, black days / Black baes, black things / These are black-owned things / Black faith still can’t be washed away / Not even in that Florida water
Almeda, in posizione quasi centrale – in cui ritornano prepotenti le rivendicazioni che animano comunque in maniera sotterranea il disco – è un omaggio al “chopped and screwed”, un tipico remix hip-hop della scena houstonana dei primi anni novanta; scelto come primo singolo pochi giorni dopo l’uscita del disco, presenta un inedito trio con The Dream (al lavoro anche su produzioni di maggior impatto mainstream con Britney Spears, Rihanna, Justin Bieber, la stessa Beyoncé) e soprattutto con Playboi Carti, astro nascente della scena di Atlanta.
Il londinese Sampha (già con lei in Don’t Touch My Hair) è protagonista di Time (Is), una ballad soul costruita su una certa tensione e sorretta da un basso continuo mentre dietro Binz c’è la produzione di Panda Bear degli Animal Collective.
Il tutto è arricchito da interludi brevissimi come Can I Hold the Mic che omaggia ancora Houston per poi sciogliersi in un organo elettrico che sarebbe stato perfetto in un album dei Genesis di Peter Gabriel.
With A Seat at the Table I had so much to say. With this album I had so much to feel. Words would have been reductive
Le aspettative generate dall’impronta così significativa di A Seat at the Table sono state forse in parte disattese ma sarebbe assolutamente insensato parlare di un passo indietro rispetto al disco precedente: When I Get Home sembra rappresentare molto più un passo a lato, come se Solange avesse avuto il bisogno di un racconto differente che fosse il riflesso di uno sguardo defilato rispetto al clamore di A Seat at the Table. Uno sguardo che restituisce integro il percorso di un’artista capace come pochi altri suoi contemporanei di lasciare il suo personalissimo segno.