Dopo una pausa di cinque anni, SOHN torna con l’annuncio di un nuovo album, in uscita il 2 settembre per 4AD. Trust è il terzo disco del musicista inglese, un tentativo di sondare le possibilità di un’apertura alla comunità e all’affidarsi al lavoro insieme agli altri. L’esperienza della paternità e i cinque anni di ricerca musicale hanno segnato il percorso artistico di SOHN – che sarà in Italia per due date il prossimo Settembre. Abbiamo raggiunto Christopher Michael Taylor aka SOHN telefonicamente per un’intervista e per farci raccontare qualcosa di più a proposito del nuovo album Trust.
L’intervista è a cura di Gio Taverni. Le fotografie ritratto sono di Alise Blandini, durante la promo a Milano.
Il tuo nuovo album Trust esce il prossimo 2 Settembre. Ne hai parlato come di un lavoro intimo, ma che genere di intimità troveremo in Trust?
Sì, l’album è intimo ma anche molto accogliente. È un disco che è nato dalla presa di coscienza che non potevo sopravvivere senza l’aiuto di altre persone – in un certo senso si tratta di un disco che mi ha salvato. Stavo lavorando da solo come è capitato per anni, e mi sono reso conto che avevo difficoltà a scrivere nuova musica – possiamo dire che questo disco nasce da una resa, mi sono piegato all’universo e alla possibilità del fallimento. Per questa ragione il suono del disco è molto aperto, è qualcosa che nasce da un me stesso che lavora insieme ad altre persone, qualcosa che non ho mai fatto prima, lasciare che altre persone portassero la loro influenza – è come se io mi fossi aperto a lasciarmi andare alla fiducia. Questo è Trust. Fidarmi di altre persone e di me stesso. Per questo sento che il disco abbia un suono molto più loving.
Parli di un desiderio di lavorare a Trust insieme ad altre persone, di avere una comunità in un certo senso.
Sì. Ho provato a scrivere un disco per cinque anni con la stessa formula che ho sempre usato, e ho scoperto di non avere troppe idee. Persino il processo di permettere di entrare altre persone nella stanza, cosa che non avevo mai fatto prima, ha fatto venire fuori la musica magicamente. Quando lavoravo da solo ero come l’architetto della mia musica, disegnavo il piano e costruivo; lavorando con altre persone mi sono scoperto come uno scultore, in base a cosa facevano loro, io modellavo finché il suono non è diventato anche mio. Questo mi ha permesso di trovare ispirazione da cose che non avevo mai sondato prima, ed è stato un processo davvero tanto prezioso.
Il nuovo album ha anche a che fare con la paternità. In passato hai detto di aver scelto il nome SOHN perché ti sentivi un po’ figlio di te stesso. Com’è essere un figlio di sé stessi e ora un padre contemporaneamente?
È un processo di apprendimento continuo. Ho avuto tre figli negli ultimi cinque anni, quindi ero abbastanza occupato. (ride) Una cosa completamente diversa dall’attraente lifestyle del musicista. Praticamente opposta. È più difficile trovare lo spazio nella tua testa, perché i bambini richiedono la tua attenzione. Io stesso chiedo a me stesso di essere molto presente con loro, gli do attenzione e provo a non distrarmi. Quindi ho dovuto imparare un nuovo modo di trovare spazio per la mia creatività. Direi che i miei due dischi precedenti erano molto più centrati su di me, ero io che mandavo messaggi a me stesso, io che mi focalizzavo sulle mie ansie e i miei problemi. Ora che sono diventato padre sento che questo nuovo disco è molto più aperto verso il mondo. Penso che venga tutto da una sorta di morte dell’ego che arriva quando diventi un genitore, perché non è più possibile continuare a essere egoista quando hai dei bambini, non c’è più spazio per l’io. E sono grato di questa esperienza di morte dell’ego, perché mi ha portato più vicino a sentirmi una persona completa.
È anche una specie di concetto buddhista.
Sì, penso che sia così. Non sono un gran conoscitore di certe cose spirituali, ma sento che è così. Gli ultimi cinque anni, inclusa la pandemia, sono stati una specie di processo di assassinio dell’artista che ero prima, e anche per questo sentivo che fare una musica era diventata una lotta, perché pensavo che non fosse rimasto più niente in me. In realtà è come se poi avessi rimosso la conchiglia sopra di me. Questo disco è il mio primo passo verso la rinascita. Penso che si possa sentire dentro le canzoni, nei loro suoni, che con questo disco provo a prendermi cura di me stesso, a essere gentile con me stesso, a dare a me stesso un po’ di amore e supporto.
C’è anche della nostalgia nel nuovo album. In Figureskating, Neusiedlersee per esempio si sente evocare la Vienna dove hai vissuto tanti anni. È come se alternassi questo sentimento di nostalgia per una parte della tua vita, ma comunque proiettata verso il futuro.
È la mia canzone preferita, quella da storyteller, alla Tom Waits o Paul Simon, tra i miei cantautori preferiti. Non ero mai stato capace di scrivere canzoni di quel tipo, e tutto a un tratto mi sono trovato a non scrivere più una dichiarazione su come mi sento, tutto a un tratto è venuto fuori un dipinto o una poesia sul tempo della mia vita, qualcosa come esperienze e fantasie sui sentimenti. Ed è fantastico che finalmente io abbia potuto lavorare ai testi in questo modo, perché i miei artisti preferiti vanno in questa direzione qui. Finalmente ho potuto farlo anche io.
Ora vivi in Catalogna, un paesaggio differente da quello austriaco. Segre prende il suo nome da un fiume spagnolo. Senti che il paesaggio abbia un’influenza sulla tua musica?
Sì, ora vivo in una pineta a sud di Barcellona. Per me il luogo ha una forte influenza sul mio suono. Tremors era un disco austriaco, Rennes un disco californiano, forse anche un po’ troppo californiano (ride). Trust possiede un tocco di Catalogna, e soprattutto penso sia un home-record. È un disco che è casa. Si sente che è stato fatto in casa, e in questo senso si tratta di un disco intimo. È il suono della casa, dell’amore, della salvezza.
L’artwork di Trust è dell’artista Jamel Armand. Hai cercato un artwork che provasse a cogliere il suono del disco?
È stato un altro esercizio per la parola Trust. Per me questo disco non è solamente fidarmi delle persone con cui lavoravo, ma anche fidarmi e aprirmi alla comunità dei creativi, alla mia famiglia, ai miei amici. Prima di questo album il mio progetto era molto centrato su me stesso. Un giorno stavo cercando su internet progetti e idee di graphic designer, qualcuno mi ha mandato i lavori di Jamel Armand, e questo è successo molto tempo prima che scrivessi il disco, almeno sei mesi prima. Ho cominciato a seguire Jamel che è un artista olandese-indonesiano, e mi sono piaciuti molto i suoi dipinti sui suoi antenati, la famiglia entra in gran parte dei suoi lavori. Ho visto uno dei suoi lavori e non mi usciva più dalla testa. I suoi artwork mi ricordano il proverbio africano “ci vuole un villaggio per crescere un bambino”. Amo davvero tanto i suoi lavori.
Cosa dobbiamo aspettarci invece dal tour europeo di Trust che comincerà a settembre?
Non vedo davvero l’ora che cominci. In Italia suoneremo a Milano e Bologna. I concerti saranno un mix dei miei precedenti album e una forte presenza di Trust. Mi accompagneranno 4, 5 persone. Tutti i miei show passati erano basati su luci e ombre e mistero, e ora cerco di rompere il mistero e portare il pubblico dentro la performance. Si accendono le luci e tutte le persone nello spazio diventano uguali: voglio condividere l’esperienza con le persone invece di suonare dietro un vetro. Ci sarà una sezione centrale del concerto che sarà molto organica, senza computer, voglio che il pubblico per cinque o sei canzoni si senta come si risvegliasse da un sogno. E poi si spengono le luci e il concerto finisce con l’elettronica. Sarà divertente e non vedo davvero l’ora di cominciare il tour.