Sogno di un festival di fine estate | TOdays 16

Paragonare Torino e Detroit è facile: le due Motorcity, fiorite economicamente grazie alla produzione di auto, dopo una forte crisi finanziaria risorgono dalle proprie ceneri, partendo dalla cultura e dalla produzione musicale. Torino si riprende quello che è suo, a partire proprio dagli spazi industriali di un quartiere difficile e contraddittorio come Barriera di Milano, con la seconda, magistrale edizione del TOdays Festival. Un festival torinese, fatto da e per i torinesi, che oltre a portare la musica nella periferia porta la città sul palco: ad affiancare i nomi internazionali e le promesse underground italiane, tante band che giocano in casa. Così è stato per Niagara, Paolo Spaccamonti, Pugile, Stearica e Victor Kwality, perpetrando il lavoro fatto lo scorso anno con l’etichetta INRI.

Un festival che si sviluppa interamente lungo l’asse di via Francesco Cigna, cuore della riqualificazione urbana di Barriera, partendo dai grandi spazi verdi dello Spazio 211, da anni caposaldo della musica in città, alla grande, claustrofobica struttura in cemento della ex fabbrica INCET, passando per il Museo Ettore Fico, con la sua grande sala bianca che per il secondo anno fa da sfondo a showcase a numero chiuso, al parco Aurelio Peccei, location designata per lo spettacolo ispirato a Viaggio al termine della notte, portato in scena da Teho Teardo ed Elio Germano, accompagnati nella prima parte da 30 percussionisti, tutti di Torino o zone limitrofe, giusto per rimarcare ancora una volta il legame saldo con la città.

DAY 1

La celebrazione di questo ultimo weekend di agosto parte venerdì, per me verso le otto e mezza, mentre superando le transenne dello Spazio 211 mi godo le ultime note di Iosonouncane, pronta per il primo vero headliner della serata. Arrivando da una full immersion di Stranger Thing, il suono eighties modernizzato degli M83 era proprio quello che ci voleva. Nonostante le mie basse aspettative, dal vivo la band ha un impatto che nessun loro disco potrà mai rendere. Anche se il live sembra tutto un rincorrere le celebri note di Midnight City, sia sopra che sotto il palco ci si diverte parecchio, tra chitarre, synth, suadenti pezzi al saxofono e un’esplosione di luci colorate, un cielo stellato trafitto da neon rosa. Io intanto mi interrogo su come possano venire definiti shoegaze o dream pop.

M83 – Foto di Loris Brunello, diritti riservati

Nessun bis, si parte alla volta del Museo Ettore Fico dove si tiene uno degli eventi più controversi del festival: l’esibizione di Calcutta con un coro Gospel. Qualcosa che solo a nominarlo fa accapponare la pelle, ma allo stesso tempo mette una curiosità terribile. Manco a dirlo, l’evento è sold out, e rimango qualche minuto davanti alle porte serrate con quella sensazione agrodolce tra il “meglio così” e il “però avrei voluto vedere che ne saltava fuori”. La grande tettoia industriale della INCET è il set perfetto per John Carpenter. Il regista sale sul palco all’ora in cui i suoi coetanei dormono da un pezzo, accolto da una folla in totale adorazione e completamente soggiogata. Suona (poche note), balla (ballicchia) e incita il pubblico mentre dietro di lui scorrono le immagini dei suoi film: è tutto così surreale da risultare perfetto. Il trionfo degli anni 80.

John Carpenter – Foto di Loris Brunello

DAY 2

La seconda giornata è più variegata, e si percepisce già dando un’occhiata al pubblico accorso per The Jesus and Mary Chain: sempre 80, ma si passa al lato oscuro. Quando si è in presenza di chi ha bene o male influenzato buona parte della musica che ascoltiamo oggi, non si sa mai se il concerto sarà solo una tacca sulla cintura o una performance di livello, se ci lasceranno con l’amaro in bocca, ma almeno potremo raccontare di averli visti. Si parte con problemi tecnici che fanno stoppare il primo pezzo sul più bello, un inconveniente che non fa presagire nulla di buono. Superate queste bagarre tecniche, il live procede piuttosto piatto, senza picchi emozionali, per un tempo che a me sembra troppo lungo. Non basta l’encore in cui si sparano tutto il meglio, a partire da Just Like Honey: rimarrà solo l’esperienza da raccontare ai nipotini che ci guarderanno con gli occhi sgranati e diranno “ma chi sono?”.

The Jesus And Mary Chain – Foto di Loris Brunello

Ma tornando ai live senza picchi emozionali, cambio di location e cominciano iCani. Quella che fin dall’inizio mi era sembrata una delle scelte meno armoniche del festival, quella che avevo percepito come una pura manovra commerciale, mostra la propria fallibilità: il posto che il giorno prima pullulava di gente per Carpenter è semi vuoto. Per fortuna c’è gente da salutare, e ci sono vodka tonic da bere per ingannare il tempo mentre Contessa e band portano a termine un live che non riesce a catturare più di qualche appassionato.

Niccolò Contessa – Foto di Loris Brunello

Ci pensano i Soulwax a salvare la serata, con una performance pazzesca: scenografia e costumi di un bianco ottico che nel buio fa quasi male, ben tre batterie sul palco. Elettronica suonata con aggressività e potenza, una delle cose migliori sentite in questi giorni.

Soulwax – Foto di Loris Brunello

DAY 3

Nonostante la lineup di nicchia, questa giornata conclusiva era quella che aspettavo con più impazienza. Dopo il già citato spettacolo al parco Peccei, dove faceva troppo caldo per poter godere appieno della performance (peccato, perchè Nerissimo di Teho Terdo e Blixa Bargeld è stata una delle cose più belle che abbia mai sentito), si varca per l’ultima volta la soglia dell’area verde che circonda Spazio 211 per una sfilza di band. The Brian Jonestown Massacre ci fanno capire subito che aria tira, aprendo le danze e catapultandoci in un viaggio psichedelico, un po’ ripetitivo, ma tutto sommato convincente, soprattutto sull’esplosivo finale.

The Brian Jonestown Massacre – Foto di Loris Brunello

I Local Natives mi fanno svettare in prima fila, dove mi ritrovo circondata da ragazzine di almeno una decina di anni in meno di me, rapite, che cantano i pezzi a memoria. Paradossale, perché ho sempre odiato i gruppi hipster, loro invece mi piacciono molto e il live scorre via in quello che mi sembra un soffio, alternando le hit dei primi due album con i singoli estratti dal prossimo in uscita.

Local Natives – Foto di Loris Brunello

I Crystal Fighters per me sono semplicemente quelli di I love London, ma quando salgono sul palco vestiti da guru orientali, con le due coriste che sembrano cubiste, i fiori sui microfoni e le fascette in testa non si capisce più niente. Tamarri, non saprei come altro definirli. Il carnevale di Rio che incontra il villaggio turistico, un mix senza senso compiuto, eppure maledettamente riuscito: ovunque si volga lo sguardo c’è gente che balla. Il rito sciamanico della fine dell’estate viene compiuto dai Goat, live attesissimo. La fusione di ritmi tribali e potenti riff di chitarra genera un sound unico e ipnotico. Le due cantanti mascherate, poi, tengono il palco in maniera incredibile, danzando in modo compulsivo con addosso pesanti abiti e maschere tribali. Sotto il palco la danza assume quasi la forma di trance, e quando finisce il pubblico ne chiede ancora. Ma non è più tempo di TOdays.

Goat – Foto di Loris Brunello

I riflettori si spengono su una manifestazione convincente, che fa il pieno di sold out e fa ben sperare per l’immediato futuro. Da qualche parte, tra lo Spazio 211 e la ex fabbrica INCET si lasciano pezzi di cuore. Io ci ho lasciato pure i piedi.

 

tutte le foto sono di Loris Brunello

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