Slowdive, vent’anni dopo | Conversando con Christian Savill

Cosa si prova a tornare insieme dopo vent’anni? Una domanda forse scontata, a cui però non sembra ancora stanco di rispondere. “Beh, è stato bello tornare insieme … Non credo che cinque o sei anni fa nessuno di noi si aspettasse qualcosa del genere, nonostante fossimo rimasti tutti in contatto e fossimo ancora amici. Abbiamo sempre avuto l’idea di registrare un nuovo disco, ma ci è voluto del tempo, perché siamo finiti a fare un sacco di concerti!”.

A parlare è Christian Savill, chitarra degli Slowdive, band cult appartenente alla fulminea scena shoegaze britannica esplosa tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90 ed esauritasi nel giro di pochi anni, spazzata via dall’incalzare del brit -pop, in patria, e dalla grande onda del grunge in arrivo da oltre oceano. Una scena rifiorita nei primi 2000 con quello che è stato definito “nu-gaze”, e definitivamente esplosa negli ultimi anni, con la reunion di molte band dell’epoca. Gli Slowdive fanno parte esattamente di questo filone. Ora che le riunion sembrano l’ultimo trend – gli dico – il vostro disco sembra nascere più da una vera urgenza e precisa volontà di tornare insieme in studio. – “Fin da quando siamo tornati insieme è stato importante per noi non suonare solo le vecchie canzoni. Volevamo essere una band totalmente funzionante, e questo implica produrre nuova musica. Abbiamo iniziato a lavorare su nuove canzoni appena abbiamo potuto, anche se ci è voluto un po’ per tornare a vedere le cose in quell’ottica. All’inizio non sapevamo se saremmo stati in grado di fare un nuovo album, pensavamo che forse poteva essere passato troppo tempo, e che un nuovo disco poteva non funzionare. Per fortuna ha funzionato, e ne siamo estremamente felici”.

La prima, storica data della reunion è al Primavera Sound 2014, alla quale segue un tour mondiale tra l’estate e l’autunno. Ma il nuovo disco arriva solo tre anni dopo. “Quando abbiamo iniziato a fare i primi concerti eravamo dei bambini! Eravamo su di giri, stavamo provando qualcosa di veramente nuovo per noi. Eravamo semplicemente dei ragazzini che si divertivano. Quando la band ha iniziato a pubblicare dischi, a chiudere i primi contratti, nei primi anni ’90, era sempre divertente, ma avevamo perso un po’ della nostra innocenza. Ci eravamo resi conto che c’era tutta un’industria musicale dietro, che è spietata, in un certo senso. Credo che questa cosa ci abbia leggermente cambiati. Da quando siamo tornati a suonare, invece, è stato fantastico. Nel 2014, prima di iniziare il tour, non avevamo idea di chi sarebbe venuto ai concerti, e ammesso che fosse venuto qualcuno, ci aspettavamo solo gente di una certa età. È stato bello vedere in particolare i giovani. In quel periodo di solito c’erano i più vecchi davanti e i giovani stavano dietro. Ora, dopo l’uscita del disco, sono i più vecchi a stare dietro! E’ pazzesco vedere gente che non era nemmeno nata quando è uscito il nostro primo disco”.

Il giorno in cui raggiungo Christian al telefono la band suona a Zurigo. Mi racconta che stanno girando l’Europa e che tra qualche giorno saranno anche in Italia, dopo un tour di tre settimane in Australia “Fa molto freddo!” mi dice, ridendo “rientriamo da tre settimane di estate ed è stato uno shock! In generale comunque siamo meravigliati, ovunque andiamo c’è tanta gente che viene ai nostri show. Credo che le motivazioni che ti spingono a fondare una band siano in parte la voglia di fare musica, ma anche il desiderio che la gente ami quello che fai, perciò la risposta del pubblico è sempre gratificante”. Tanta gente anche per la seconda delle due date italiane, all’Alcatraz di Milano, dopo il sold out del Locomotiv di Bologna. Nonostante la sala sia ridotta in capacità, il pubblico è straripante. Sul palco le cinque presenze sono dimesse, i convenevoli stanno a zero: hanno davvero l’aria di quelli che stanno vivendo, quasi increduli, un momento di gloria.

“Il modo in cui si fruisce la musica è cambiato così tanto dai nostri primi anni, allora non c’era internet o cose del genere. Ora è tutto veloce, con i social media fai un concerto e ricevi un feedback immediato, e puoi parlare direttamente con chi era presente. C’è molta più interazione con la gente che ci segue, è un aspetto che ci piace molto”. Nonostante il legame con la scena shoegaze sia fortissimo, Christian ci confessa di sentirsi un po’ un outsider:“Non sono molto in contatto con il resto della scena, è come se fossimo chiusi nella nostra bolla personale. Ovviamente ascoltiamo altre band, abbiamo la fortuna di partecipare a diversi festival e condividere il palco con molte nuove band, ma credo che in un certo senso, gli Slowdive esistano su un piano tutto loro, nel loro piccolo mondo che non ha mai tenuto molto conto di quello che succedeva al di fuori. Da questo punto di vista internet ha aiutato a creare queste piccole comunità locali”.

Nella dimensione live scelgono di dare molto spazio alle nuove canzoni, senza tralasciare pietre miliari come “When The Sun Hits“, “Alison” e l’intenso encore con “Dagger” e “40 Days“. L’intero concerto sembra seguire un flusso, in cui suoni del passato e del presente si amalgamano alla perfezione: nonostante i 20 anni di distanza, infatti, “Slowdive” è un disco coerente ed una naturale prosecuzione dei suoi predecessori, a livello di sonorità. I suggestivi giochi di luce e le visual alle loro spalle quasi stridono con queste cinque sagome che si intravedono, che continuano a suonare “guardandosi le scarpe”come nella tradizione shoegaze: il termine deriva proprio dalla posizione che i musicisti tengono, con lo sguardo sempre rivolto verso le pedaliere delle chitarre. Ci accompagnano in un viaggio che, anche se troppo breve, riesce a portarci altrove.

Grazie per il tuo tempo e per questa chiacchierata, Christian, e grazie agli Slowdive che ci credono, senza credersela. Che sentono di aver perso parte della loro innocenza, però poi si presentano sul palco come cinque bambini emozionati. Belli, belli davvero.

Fotografie di Alessia Naccarato

 

 

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