Guardatevi intorno. Mommy jeans, Levi’s 501, giubbotti oversize, bomber, camicie di flanella, capelli colorati. Addirittura le collane elastiche. Persino io, per quanto complice e rea confessa di ogni singolo reato sopraelencato, sono stranita da questo prepotente ritorno degli anni 90.
Musicalmente poi, il trend segue la stessa direzione: post-rock, dream pop, slowcore e shoegaze fanno capolino in ogni testata, recensione o playlist di Spotify. Nomi seminali per questi generi, band che spesso non hanno avuto il successo che avrebbero meritato a tempo debito, riempiono le lineup di festival e i cartelloni dei locali. Non solo, molte band contemporanee si rifanno a suoni e suggestioni proprie di quegli anni, a cavallo tra fine 80 ed inizio 90. Difficile dire se si tratta di semplice mancanza di innovazione, di un’operazione mediatica di proporzioni globali o di una sana riscoperta di sonorità che hanno influenzato prepotentemente quanto accaduto successivamente, seppur in molti casi si sia trattato di storie fulminee. Basti pensare agli Slint, che hanno dettato le sorti del post- rock con un solo, monumentale album, o ai redivivi Ride, appena tornati con una manciata di nuove canzoni. La lunga lista include nomi come Black Heart Procession, Jesus and the Mary Chain, Lush, tutti tornati a calcare i palchi dopo anni, a volte decenni interi, di assenza.
Nell’ambito shogaze, impossibile non citare gli Slowdive, padri fondatori del genere nonostante i soli tre dischi all’attivo: Just for a day, l’esordio, del 1991, il monumentale Souvlaki del 1993 e Pygmalion del 1995. Da qui in poi, una serie di progetti paralleli, dalla naturale prosecuzione con i Mojave 3, all’ultimo, Minor Victories che vede una Rachel Goswell in forma smagliante.
Il silenzio, fino ad oggi, data di uscita di un nuovo lavoro in studio dopo 22 anni, dal titolo, semplice quanto iconico, Slowdive.
Idealmente, Slowdive si colloca esattamente dove il percorso si era interrotto, e se da un lato è difficile pensare che due decadi separino questi lavori, dall’altro arriva in un momento più che propizio per diversi fattori, dalla già citata nuova alba che il genere sta vivendo, creando un’attenzione spasmodica per le reunion, ma soprattutto per lo stato di grazia della band, che riesce a sfornare l’esempio perfetto di come tornare in scena dopo una lunga assenza.
Un disco ispirato, un esercizio di talento, una dimostrazione di stile da parte di chi padroneggia gli strumenti del mestiere, una lezione dall’alto della cattedra di chi ha inventato un genere e ha ancora molto da dire dopo 20 lunghi anni. Slowdive suona come il lavoro di una band matura, che sa quali sono i propri punti di forza: il muro di suono da cui emergono riff catchy, il falsetto etereo di Rachel, in armonia con la voce di Neil Halstead, più adulta, con sfaccettature diverse, forse un po’ più incerta, ma ugualmente suggestiva.
Le otto tracce di cui è composto sono una parabola onirica di malinconia e nostalgia, in cui i singoli Star Roving e Sugar for the Pill sono il punto più alto. Un’amalgama che crea un ambiente sonoro morbido, liquido e rarefatto, dove lasciarsi andare ai sentimenti senza remore.
Arrivati al fondo, con gli otto minuti della conclusiva Falling Ashes, è difficile dire se ci si trovi nel 1995 o nel 2017. La band di ragazzini di Reading, ora con qualche consapevolezza e ruga in più, riesce nell’intento di creare qualcosa che è al contempo nostalgico e moderno, ancorato al lavoro fatto in passato ma proiettato in quello che ci auguriamo possa essere un lungo e propizio futuro.