Tornano gli Sleigh Bells dopo 3 anni di silenzio con il loro quarto LP, Jessica Rabbit, uscito l’ 11 Novembre per Torn Clean. Per la prima volta nella storia del progetto Sleigh Bells, il duo newyorchese è autoprodotto. Torn Clean non è infatti che il nome della nuova etichetta che il gruppo gestisce.
L’album, anche in virtù della nuova libertà di cui gode, presenta alcune importanti differenze con i precedenti ed alcuni importanti punti di continuità. Il primo riguarda il sound. Per una volta il gruppo ha rinunciato al proprio caratteristico sound lancinante, dove chitarre distorte fino al parossismo limavano le orecchie imitando affilatissime e pesanti sciabolate di chissà quale sintetizzatore. Il sound ora è più organico, la produzione meno volontariamente asettica e straniante. Le chitarre sono più autentiche, più distinguibili, più vere.
Il voluto calo di attenzione chirurgica alla sintesi del suono della chitarra e alla produzione in generale apre ad intuizioni inaspettate. La voce di Alexis, ora più libera di esprimersi, trova un’identità più marcata rivelandosi simile nel timbro a certa musica pop femminile fine secolo, lo stesso timbro che oggi, ad esempio, fa di Lady Gaga un disco di platino.
Lightning Turns Sawdust Gold e I Can’t Stand You Anymore sono esempi perfetti di un pop-rock sbilenco e frammentato, sentito quanto manieristico. Sulle tracce che seguono tornano i beat elettronici che caratterizzano da sempre la band ma i riff si fanno più originali, non tanto martellanti come nei primi album ma pronti a cambiare in virate di tanto in tanto inaspettate e ad interrompersi bruscamente svegliando l’attenzione che in questo modo non cala mai veramente.
Questa ormai ben celebre chitarra stirata nella terra di nessuno tra il distorto e la dance ora si è fatta Rock redivivo, ma cerebrale al punto di sembrare alle volte campionata, seriale; ad accompagnare un cantato pop che si vuole folgorante ma che spesso fa sorridere.
Se si ascolta Jessica Rabbit non si può fare a meno di chiedersi quali pezzi pop dei primi duemila ci ricorda. Una erta Avril Lavigne? No. Kelly Clarkson? Forse. Britney Spears? Oppure certa Eurodance? Ma resta difficile trovare una corrispondenza vera.
La seconda metà dell’album comprende da un lato Downtempo più lugubri, che sembrano usciti da una terra di mezzo fra la colonna sonora di un film comico-serioso tipo Underworld e l’elettronica di Kavinsky e dall’altro pesanti riff per cheerleader smaliziate più in linea col vecchio Treats ma stirati fino a perdere quella dinamo che più che potenziarli li rendeva ripetitivi.
Ma cosa impedisce al duo di ridursi ad essere Alexis Krauss ‘dei famosi’? Forse la produzione piatta della voce come a dire “siamo entrambi in primo piano”? O l’arrangiamento ricco di efficaci virate di stile e spunti artistici ance all’interno dello stesso pezzo? Si, entrambi.
Jessica Rabbit in conclusione è come la sua copertina: un composito quadro a metà fra Basquiat e Francis Bacon raffigurante presumibilmente un coniglio (feroce) vestito di velluto. Un piacevole Frankenstein dell’indie pop anni ’10, ricco di buone idee e capace più di prima di valorizzare i propri elementi ma, con nostro grande dispiacere, privo di brani davvero memorabili. I fan lo adoreranno, noi per un po’ lo terremo nell’Mp3!