Voto: 7/10
Sono passati ormai quattro anni dall’ultima opera inedita della band islandese per eccellenza. Anni di propaganda, di tour internazionali, di commercializzazione, di film. La manovra economica più vicina a noi è senza dubbio il documentario Inni, presentato a Venezia 68 l’anno passato, nonché in molti altri festival minori sparsi per il mondo; al film è ovviamente collegata la raccolta di registrazioni live, le magliette, i vinili e tutto il merchandising conseguente. Parliamoci dunque chiaro: i Sigur Rós sono pienamente consci del loro successo e non hanno nessuna remora di tipo morale nel sfruttarlo in modo pieno. Dopotutto non hanno mai vantato velleità ascetiche o ideologiche nell’arco della loro carriera e quindi neppure potrebbero essere tacciati di ipocrisia o altro. Era solo necessario fissare questo presupposto poiché “Valtari”, la loro ultima fatica, appare già ad un primo ascolto come un disco facile, piacente ed amabile, al punto da essere per certi versi semplicistico. Se dovessi definirlo in rapporto a Með suð í eyrum við spilum end (che peraltro non considero affatto la loro opera migliore) direi che si tratta di un passo non indietro, ma di lato. Dopo averci lasciati con un post-rock spumeggiante, travolgente e, per certi versi, persino (vana)glorioso, il gruppo di Reykjavík torna con un album di ambient dal sapore minimalista, in cui la batteria viene ostracizzata, che strizza l’occhio ad alcune delle migliori tracce di Ágætis Byrjun e ( ), ma arrivando addirittura a superarle in introspezione e sacralità. Valtari pare proprio un album “spirituale” in cui le melodie si elevano e si astraggono rispetto ai lavori precedenti. Questo aspetto lo rende però anche molto fruibile, specie se preso come mera musica di accompagnamento, e dunque meno bisognoso di un ascolto impegnato ed attento. Intendiamoci, la qualità tecnica resta altissima, come anche ben riconoscibile rimane il loro “marchio di fabbrica”, evidenziato dalla voce di Jonsi; ciò che però si percepisce è il peso di un’opera troppo artificiosa e misurata, quasi imprigionata.
Il disco inizia sui cori bizantini di “Ég anda”; il brano aumenta di intensità e prosegue poi sui canoni vocali a cui siamo da tempo abituati, per una partenza estremamente piacevole ma certo non inaspettata. “Ekki múkk” strizza l’occhio ai lavori precedenti, ed in particolare ai momenti più forti del secondo album; sono infatti molto evidenti i richiami a “Svefn-g-englar”. L’andamento è lento e malinconico, scandito ed intrecciato ad un sottofondo corale; il risultato è estremamente dolce, ma in alcuni punti sembra davvero di poter parlare di autoplagio. “Varúð” parte mesta per continuare poi in una crescita sperticata verso l’alto nel ritornello, intervallato a parti di cantato più cupo nelle strofe; una canzone che non esito a definire epicheggiante, in particolar modo nella lunga coda finale. “Rembihnûtur” lo si percepisce come il pezzo di transizione all’interno di un ipotetico percorso tracciato dal disco; la prima parte si basa su un’elettronica minimale, mente nella seconda i suoni si fanno più pieni, con il tutto accompagnato da un piano i cui tasti vengono suonati in modo accennato e singhiozzante. La successiva, “Dauðalogn”, lamentosa e non molto originale, trasmette un senso di incompiutezza e fa fatica a restare impressa nella memoria; la si potrebbe facilmente ascoltare senza rendersene conto. Ma è “Varðeldur” il pezzo meno convincente del disco; sei minuti di arpeggi e di suoni ripetitivi in un loop continuo e stancante che sarebbe stato ben evitabile. La title-track riesce a risollevare le sorti dell’opera creando un efficace mood di tensione ed inquietudine in climax ascendente per tutta la durata del brano; il finale aperto e non risolutivo in questo caso risulta necessario per non rovinare un’atmosfera fosca e flebile. Infine, la chiusura è affidata alle note rassicuranti di “Fjögur píanó”, in cui due morbide linee melodiche di piano si incrociano con grazia per sfociare in un finale strumentale toccante e composto.
Si tratta, in conclusione, di un’opera interessante che rappresenta un brusco cambio di marcia rispetto alla direzione presa nei lavori precedenti. L’insieme non ha del tutto schivato il rischio di risultare a tratti monotono, costantemente ad un livello altissimo eppure così privo di variazioni ritmiche rilevanti. Di certo il pubblico della band uscirà spaccato dall’arrivo di Valtari: gli amanti delle dolci atmosfere ambient e dei costrutti riflessivi probabilmente l’adoreranno, se non altro più di quanto non abbiano fatto con il suo predecessore; coloro che invece erano affezionati all’aspetto più strettamente post-rock della poetica Sigur Rós dovranno ingoiare questo boccone un po’ amaro, ritornando magari, subito dopo l’ascolto, alle ben più travolgenti note di “Hoppipolla” o di “Festival”.
Tracklist:
- Ég anda
- Ekki múkk
- Varúð
- Rembihnûtur
- Dauðalogn
- Varðeldur
- Valtari
- Fjögur píanó