Nessuno si aspettava questi Sigur Rós. Nessuno si aspettava un colpo di reni come questo dopo la catastrofe “Valtari”: i Sigur Rós sembravano destinati a rincorrere costantemente i fantasmi di se stessi, di ciò che erano stati con gli immensi “Von”, “Ágætis byrjun e “( )”, e in parte anche con “Takk” e con il più orchestrale “Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust”. Quando ho ascoltato il poco ispirato “Valtari” ho pensato: “ok, i Sigur Ros sono morti” e mi sono tragicamente listato a lutto.
Quando ho cominciato ad ascoltare questo “Kveikur” ero, quindi, totalmente prevenuto, quasi disinteressato. Nota dopo nota, il gruppo si è fatto riconoscere, ha cacciato il carattere e si è completamente distaccato dalle solari e nostalgiche produzioni precedenti, lanciandosi a capofitto in un album cupo, buio, pieno di catene che cigolano, pieno di sonorità inedite e di rinnovata ispirazione. In una parola: “nuovo”. I Sigur Ros si sono rialzati.
L’album si apre con “Brennisteinn”, che è anche il singolo che ha anticipato l’album: la voce di Jonsi si staglia sullo sfondo con l’accompagnamento di un basso distorto e ritmico, nero (come il video del resto) e di una batteria insolitamente metallica, ripetuta, ossessiva, quasi senza speranza di mutamento: il testo è una vera e propria confessione di un incubo, di visioni orripilanti che non devono essere rivelate (“ekki segja neinum frá”, “non dirlo a nessuno”).
Isjaki recupera una forma canzone più riconoscibile per i loro standard, ricorda spesso alcuni passaggi più “pop” di Takk… con il suo ritornello orecchiabile e i suoi ululati sullo sfondo in controtempo. Probabilmente una delle tracce migliori del disco, di quelle che si imprimono maggiormente nella memoria: qui trova spazio la tematica dell’amore perduto, mischiata a metafore a carattere naturalistico che non sono mai mancate alla band islandese: “við vissum alltaf að þetta myndi enda” ammette con rassegnazione Jonsi, “abbiamo sempre saputo che sarebbe finita”… “Isjaki”… “iceberg”.
Aspetti tipici di questo nuovo lavoro sono senz’altro la particolare rilevanza che viene data alla batteria, ad alcune forti distorsioni di basso e a elementi di musica elettronica praticamente inediti (in “Yfirbord” ritroviamo un vocoder e una drum machine improvvisa), ma sono anche presenti alcuni pezzi più “classici” per la band, come l’epilogo “Var”, che ci concede la pace finale, con un’atmosfera cullata da un ipnotico pianoforte preso direttamente da “Ágætis byrjun” o “( )”. L’unica nota leggermente dolente forse è “Rafstraumur” per la sua eccessiva somiglianza con “Glósóli”: batteria incalzante, chitarra che sale di intensità, climax corredato dagli ululati di Jonsi.
Una nota di merito invece se l’aggiudica proprio la title track “Kveikur”: estremamente densa, a tratti ossessiva ed angosciante. Sono presenti chitarre distorte, corde maltrattate. Il cantato di Jonsi è ai limiti del disperato, come il testo d’altronde: “með svartbundið fyrir augu, reykur brennum lófa innað beini“… “i nostri occhi coperti di fumo nero, i nostri palmi bruciati fino alle ossa carbonizzate”. Una lunga ma opportuna tempesta elettrica chiude il pezzo, la quale ricorda addirittura le ultime produzioni degli Swans: degna conclusione del pezzo più buio dell’album.
Questo lavoro rappresenta per i Sigur Ros un punto di svolta, un chiaro distacco dalle produzioni precedenti, un allontanamento dalle atmosfere ripetitive e ridondanti di “Valtari” e la scoperta di sonorità più cadenzate, con un evidente presenza dell’elettronica e di alcune componenti progressive praticamente inedite. Inoltre la band sembra impegnata in una continua ricerca verso sonorità tenebrose, con gli strumenti a fiato che sembrano stonati, a volte piazzati a caso, sclerotici, addirittura schizoidi – in particolar modo in hrafntinna – i quali si alternano ai cori angelici e alle atmosfere rarefatte a cui siamo abituati.
Tracklist:
- Brennisteinn
- Hrafntinna
- Ísjaki
- Yfirborð
- Stormur
- Kveikur
- Rafstraumur
- Bláþráður
- Var