Da “Shiva baby” a “Ritorno a Seoul”: storie di millennial in crisi d’identità

Se c’è un tropo o un genere davvero interessante che ha caratterizzato diversi film negli ultimi anni è quello dei millennial in piena crisi di identità. Per lo più ex bimbi prodigio o ragazzini con il mondo ai propri piedi, i protagonisti e le protagoniste di queste pellicole si trovano a districarsi tra le speranze sgretolatesi nel corso degli anni in merito al loro futuro, la realtà del presente in cui vivono e le aspettative dei propri genitori. Quando si parla di ex bimbi prodigio si pensa subito al cult “I Tanenbaum” di Wes Anderson, ma non è il caso delle pellicole che abbiamo in mente.

Le storie che vi proponiamo sono quelle di tre giovani ragazze che si trovano a dover fare i conti con l’ingresso nel mondo degli adulti, mettendosi alla ricerca della strada da intraprendere, tra sogni infranti, disillusioni e ricerca della propria identità.

Negli ultimi anni sono uscite diverse pellicole di questo genere: forti di una potenza dissacrante e dalla sarcastica amarezza tinta di disillusione, “Shiva Baby” di Emma Seligman, “Sick of myself” di Kristoffer Bergli e “Ritorno a Seoul” di Davy Chou hanno come protagoniste tre giovani adulte che si trovano a fare i conti con un mondo molto diverso da come se lo erano sempre immaginato.

Il peggior incubo per una ragazza irrisolta: un lungo shivà con i parenti

Shiva baby

Il brillante e disarmante esordio alla regia di Emma Seligman, “Shiva Baby” (2020), è forse la rappresentazione su grande schermo di ciò che significa crescere e compiere i primi tentennanti passi nel mondo degli adulti. Protagonista della classica e teatralissima commedia degli equivoci è Danielle (interpretata da Rachel Sennott, che ha recitato anche in “Bottoms”, del 2023, sempre di Seligman e in “Finalmente l’alba” di Saverio Costanzo, anch’esso uscito lo scorso anno), che viene trascinata dai genitori a un funerale ebraico, senza nemmeno sapere chi dei suoi parenti sia morto.

Le incertezze della gioventù che cerca di affermarsi e trovare il proprio posto nel mondo sono incastonate all’interno di un tradizionale funerale ebraico o, meglio, nel banchetto successivo, che si trasforma in un ambiente claustrofobico in cui Danielle è continuamente punzecchiata e torturata verbalmente da parenti pseudo-mostruosi e alquanto inquietanti.

C’è solo un problema: Danielle è una studentessa universitaria bisessuale con evidenti disturbi alimentari, figlia di una famiglia ebraica benestante, che per pagarsi gli studi fa la sex worker, mantenendo ben segreta questa parte della sua vita ai suoi genitori, Debbie e Joel (Fred Melamed e Polly Draper, attori incantevoli che formano un’insolita ed esilarante coppia comica, in grado di mettere in imbarazzo e a disagio la giovane Danielle in ogni loro interazione).

Danielle: “Mamma non posso mangiarlo”
Debbie: “Sembri la Gwineth Paltrow dei poveri”

La situazione nella casa piena di parenti sembra di per sé rovente e sudoripara, complice anche l’incontro con “l’amica d’infanzia” Maya (la mirabile Molly Gordon) – come la chiama inizialmente la madre – che, dallo snocciolamento di sguardi, dialoghi serrati, ricchi di tensione, sottintesi e silenzi si capisce che il loro legame sia stato qualcosa di più intimo e profondo. Lo si intuisce anche dall’ammonimento rivolto dalla madre appena la protagonista viene a sapere che c’è anche la vecchia amica: “Niente giochetti con Maya”.

Shiva baby

La situazione si complica ulteriormente all’arrivo al rinfresco del giovane e affascinante Max, accompagnato dalla moglie Kim Beckett (Danny Deferrari e Dianna Agron): con lui Danielle ha avuto il giorno stesso un rapporto sessuale a pagamento. Sarà dura mantenere segreta la loro conoscenza reciproca con le famiglie intorno, figlioletto dello sugar daddy compreso. Dall’entrata in scena di Max e Kim la commedia assume un ritmo incalzante e claustrofobico, alimentato e amplificato in maniera terrificante dai pizzichi d’archetti e violini e dalle percussioni della colonna sonora che porta la firma di Ariel Marx. Più la musica si fa pressante, più Danielle è vicina al punto di rottura, incapace di reggere il teatrino con la propria famiglia riguardo la sua vita, il suo lavoro attuale e la sua identità sessuale.

Ad aumentare il senso di claustrofobia concorre la scelta tipicamente teatrale dell’ambientare tutte le scene del film (meno quella iniziale) in un solo luogo, meglio ancora se chiuso come può esserlo una casa piena di parenti tentacolari e che sembrano spuntare fuori all’improvviso da ogni angolo o parete dell’abitazione, sorprendendo di volta in volta la protagonista in un valzer vorticoso tra bugie, realtà, finzioni e omissioni mancate. L’epilogo è inevitabile: Danielle è portata allo stremo, fino a raggiungere il punto di rottura e l’accettazione della propria identità, senza più bisogno di indossare delle maschere per compiacere gli altri.

Insomma, “Shiva Baby” è una commedia degli errori nel suo stato più puro, altamente godibile che mette in luce gli aspetti più terrificanti degli eventi in famiglia, dai pregiudizi generazionali, alle incomprensioni sugli studi e sui progetti futuri, fino agli immancabili commenti sul corpo e sulle abitudini alimentari; impossibile non simpatizzare per il disagio di Danielle, che cerca invano di liberarsi da quella terrificante riunione senza infliggersi troppe ferite.

 

“Sick of my self”, una sfida a colpi di egocentrismo

Sick of myself

Rispetto a “Shiva Baby”, la pellicola “Sick of my self” del cineasta norvegese Kristoffer Borgli presenta un’ironia completamente diversa: al centro dell’attenzione vi è la giovane coppia formata da Signe (Kristine Kujath Thorp) e Thomas (Eirik Saether), due egocentrici autocentrati che ben rappresentano uno dei problemi che caratterizzano la nuova generazione di giovani adulti.

La seconda fatica di Borgli è stata presentata al festival di Cannes due anni fa nella sezione “Un certain regard”; è difficile catalogarla in un unico genere, in quanto “Sick of myself” gioca con la commedia, l’horror, il bildungsroman in chiave negativa per raccontare l’esplosione e la tragicomica caduta dell’antieroina Signe, che arriverà a rischiare la propria vita pur di farsi notare dagli altri e pensare, per questo, di valere qualcosa.

 Signe: “Sono i narcisisti quelli che ce la fanno alla fine”

Signe è una cameriera, mentre il fidanzato Thomas è un artista: la loro è una relazione tossica, completamente incentrata sulla competizione per ottenere un fantomatico dominio dell’uno sull’altro e su chi deve prevalere e nutrirsi disperatamente delle attenzioni degli altri. Il rapporto, seppur equilibrato nelle continue gare per accaparrarsi un ipotetico palcoscenico che possa soddisfare la loro fame di attenzioni, raggiunge il punto di non ritorno quando la carriera di Thomas sembra decollare.

È qui che Signe, terrorizzata dall’idea di essere oscurata dalla sua luminosa arte, compie il malsano gesto di ingerire un farmaco russo considerato illegale che le causerà una stranissima e dolorosissima reazione, al punto da inficiare profondamente sul suo aspetto esteriore e sulla sua salute.

Sick of myself

Questa azione insensata, però, ha gli effetti sperati: in questo modo Signe attira l’attenzione mediatica su di sé, diventando un vero e proprio fenomeno social e ottenendo un’apparenza riconosciuta dagli altri. Ma fino a quanto riuscirà a sostenere questa nuova versione della sua personalità? E a quale prezzo?

Borgli ha ideato una commedia cinica, fustigatrice del vero dramma della contemporaneità l’ossessione per l’attenzione che sfocia nel più ridicolo narcisismo che, però, non è adatta a tutti. Quelli alla ricerca di un cambiamento in positivo dei protagonisti, infatti, possono rimanere delusi, perché i protagonisti rimangono arroganti, irrequieti, estremamente vanitosi, egoisti e antipatici esattamente come lo sono dal primo minuto della pellicola, se non di più. L’unica cosa a mutare in loro è la consapevolezza di riuscire ad alzare sempre di più l’asticella del senso del ridicolo, dell’egoismo e dell’apparenza pur di vedere centrati i propri obiettivi malati.

 

Un’identità lacerata da ricomporre: “Ritorno a Seoul”

Ritorno a Seoul

Chi è alla ricerca di un racconto più malinconico e lacerante rispetto ai primi due film troverà pane per i suoi denti guardando “Ritorno a Seoul” di Davy Chou, uscito nel 2022 e anch’esso presentato al festival di Cannes, nella sezione “Un certain regard”.

La pellicola è incentrata sulla venticinquenne Freddie (Ji-Min Park), enigmatica e apparentemente fredda ragazza di origini sudcoreane, cresciuta e allevata da una famiglia adottiva in Francia. Quella portata sullo schermo è una storia comune a molti sudcoreani: si stima, infatti, che negli ultimi sessanta anni circa 200mila bambini nati in Corea del Sud siano stati dati in adozione a famiglie occidentali, per la maggior parte statunitensi. La tradizione delle adozioni internazionali è diventata una prassi comune a partire dagli anni Cinquanta, quando il Paese era uscito piuttosto infiacchito dalla Guerra di Corea; molte associazioni degli States di stampo religioso si attivarono per trovare una sistemazione adatta ai tanti orfani di guerra, instaurando così una pratica che è stata portata avanti per decenni, nonostante la ripresa economica della Corea.

A muovere Freddie fino a Seoul è il tentativo di rintracciare i genitori biologici, ma nella capitale troverà molto altro, a partire da amici e radici con cui fare i conti, come una nuova metà del cielo che, però, si incastra male con la sua identità da giovane donna indipendente cresciuta all’occidentale.

Freddie: “Abbandonate i vostri figli e poi gli chiedete di diventare dei buoni coreani?”

Ritorno a Seoul

“Ritorno a Seoul” segue la protagonista nel decennio successivo, che la vedrà tornare diverse volte nella sua città natale, scoprendone di volta in volta lati nascosti e sfaccettati, dall’ossequio delle tradizioni all’evasione tipicamente giovanile e alla trasgressione che può sfociare nell’eccesso. L’immersione totale di Freddie in questa città futuristica e a tratti cyberpunk può essere interpretata sia come un modo per sfuggire dalla lacerante realtà e dal cocente senso di rifiuto di una madre che le nega per diversi anni pure la parvenza di un incontro, sia come un tentativo di conciliare i due mondi cui appartiene, senza però che il proprio desiderio di appartenenza venga soddisfatto.

Infatti, con il suo carattere imperturbabile, strafottente e spaccone e il suo sguardo diretto, Freddie instaura un rapporto particolare con il proprio paese d’origine, gli abitanti autoctoni e le sue tradizioni, per lo più basato sul disincanto e sul desiderio di ribadire sempre di più il proprio bisogno di emancipazione e libertà. E tutto questo malgrado il paese da cui si proviene. Anzi, più la ragazza si immerge nella terra d’origine, più i contatti e i confini del mondo che conosceva sbiadiscono, fino a creare una commistione inaudita tra Francia e Corea, in un modo personalissimo che appartiene unicamente a Freddie.

La storia di Freddie alla scoperta della Corea del Sud, tra metropoli e periferie, si tramuta così in uno racconto generazionale che vuole andare oltre l’empatia, la riconciliazione con le proprie radici, il rapporto tra Oriente e Occidente. Davy Chou imbastisce un discorso di rottura e di potenza inaudita, che rompe i soliti schemi e inaugura una nuova strada da percorrere per il mondo del cinema.

Le storie di Danielle, Signe e Freddie sono diversissime tra di loro per trama, temi affrontati e stile registico. Eppure tutte insieme sono un composito puzzle – ma anche dissonante – della generazione di giovane adulte che provano a muovere i propri passi nel mondo, alla ricerca di una strada che sia solo loro.

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