Breviario | Un ascolto ai nuovi album di Shellac e Beth Gibbons

Un ascolto a due album usciti questo venerdì: To All Trains degli Shellac, e Lives Outgrown di Beth Gibbons.

Shellac – To All Trains

Il nuovo album degli Shellac, To All Trains, arriva a una settimana dalla morte di Steve Albini e suona come un epitaffio da un mondo perduto, chitarre infettate, suoni di ruggine, fiammate di abrasivo noise. La copertina del disco è un richiamo a entrare nel microcosmo metallico degli Shellac: siamo nella stazione di Chicago, da qui possiamo partire per mete ignote, salire sui prodigiosi accelerati di Wsod verso sfregiati giri di chitarre, ridiscendere sulle decelerate pianure di Tatoos.

Steve Albini apparteneva a una specie rara di inquieti cercatori di suoni che buttavano la testa nel sottosuolo. Era uno stravagante incendiario, un trafficante di alternative nel reame stanco della musica indipendente. To All Trains suona come tutto quello in cui credeva: diluvi, scosse, scrappers, urla, batterie. I Don’t Fear Hell, canta nell’ultima traccia del disco, quasi a presagire l’incontro con la terribile traversata.

Gli Shellac si stavano preparando per il tour di supporto al nuovo album, con l’improvvisa scomparsa di Albini il treno in partenza da Chicago si è affollato di ricordi e la destinazione di viaggio è diventata sconosciuta. To All Trains rischia di suonare ancora più post hardcore – come un sogno in frantumi o una brutale lettera di addio interrotta a piè di pagina. Ma a dieci anni dall’ultimo album, gli Shellac hanno ancora un suono liberatorio, ruvido, ispirato.

 


Beth Gibbons – Lives Outgrown

Lives Outgrown, il disco solista di Beth Gibbons, è un incanto. Già dal pezzo d’attacco Tell Me Who You Are Today è chiaro dove ci condurrà: soffici mondi folk e autunnali stupori.

Da tempo la voce di Gibbons ci condanna all’ascolto. Con questo album solista la cantautrice inglese si lascia andare a un dolce incedere di riflessioni a cui si accompagnano chitarre, archi, tastiere, strumenti a fiato, improvvisazioni con tutto ciò che si può suonare, graffianti cucchiai di metallo che battono tasti di pianoforte. Di tanto in tanto si insinuano i cori a fare il controcanto.

Davanti allo scorrere dei giorni Beth Gibbons cerca e trova una formula per scongiurare il tempo attraverso l’energia liberatrice della musica. Le persone hanno cominciato a morire, ha detto Gibbons per raccontare da quali sottosuoli è emerso il processo di composizione del disco. Nel raffinato cantautorato di Lives Outgrown c’è una malinconia che non si nasconde, la stretta del corpo che invecchia, la sconfinata libertà del canto.

Un disco intimista, di chiaroscuri, che a turno s’adombra in rauche strettoie sinfoniche, e poi s’illumina di gioiose cavalcate folk che suonano da un altro tempo, di quelle utopie che sono diventate antiche. Dieci canzoni composte e registrate nel corso di un decennio, con la co-produzione di James Ford e la presenza di Lee Harris (Talk Talk). Dieci variazioni sull’incanto.

 

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