Se si ripercorre la vita di Sharon Van Etten sembra di assistere a uno di quei piccoli miracoli americani, quei racconti che spesso farciscono un film dalle ambientazioni indie, fatto di caffetterie, negozi di dischi, una grande città con i boulevard sempre pieni di persone e i taxi che volano da una parte all’altra e riempiono le strade nelle ore di punta. Le crisi sentimentali, gli amori che non vanno, la difficile vita nell’incastrare chitarra e conti da pagare, che caratterizzeranno l’esordio di Because I Was in Love, un denso ritratto dell’amore metropolitano fortemente legato alla tradizione folk, tanto scarno quanto profondo e delicato. Del resto è andata proprio così. Sharon Van, prima della Drag City, di NPR e della Jagjaguwar, era possibile incontrarla fra i banconi del Red Rose, a Murfreesboro, il Perryville nel New Jersey o l’Astor Wine di NY e, probabilmente, immaginare soltanto quello ci potesse essere dietro. Dei cd incisi in casa, e le copertine a mano, delle esibizioni con la sola chitarra e qualche amico nelle salette di Brooklyn, nel silenzio più totale, nella giovinezza che si mostra timida ma talmente ipnotica e decisa da ammutolire un noisy bar del dicembre americano.
Si finisce spesso, nella descrizione di un’autrice, per dare un’importanza naturale alla dolcezza che implicano le note più basse, confonderle cioè con una costante emotiva di chi si sta esibendo come se fossero un elemento totalizzante, capace di soverchiare tutti gli altri contenuti e lasciare poco spazio ad altro. Di spingere l’occhio verso una sola direzione, dettata anche dalle atmosfere più immediate che possono ricordare le parole o le armonie sottili degli esordi di Sharon Van. Nel suo caso, però, ci troviamo davanti a un’artista che ha fatto della corrente emotiva una risorsa inesauribile di ispirazione, a tratti trascinata da una creatività irrefrenabile che l’ha portata a rilasciare quattro dischi nel giro di cinque anni (Because I Was in Love, epic, Tramp, Are We There prima della pausa che ha anticipato Remind Me Tomorrow) e rende l’idea della profonda necessità di comunicare, non più da sola, il proprio spettro di sensazioni, immediate, che caratterizzavano la prima fase della sua vita. Una situazione di cui si fa cosciente quasi subito, «I have a lot of songs that I want to record, and I want to keep as busy as possible» dirà in un’intervista durante il lancio di epic, nel 2010, e che tratteggia le linee di un profilo mai domo, vera immagine di questa interprete che è stata in grado di bruciare velocemente le tappe fino a riconoscerei fra le voci folk più originali. Una costante malinconica, a tratti nera, sempre filo conduttore di un’interpretazione che, fino a Tramp, recuperava in scene dense, a tratti confuse e timide, non del tutto sicure delle proprie possibilità di trasformare il proprio racconto personale in possibilità di interpretazione collettiva.
I feel like the album Because I Was in Love was a lot more timid and shy and unsure about everything. Some of [the epic] songs I wrote around the same period, maybe just after those songs, but I was a lot more comfortable with who I was, and I was a lot more at peace with what happened. I feel a lot stronger about what happened. I feel like things came across as more confident than the old record.
Sharon Van Etten x Under the Radar Magazine, 2010
Suonare, per la Sharon Van del secondo periodo, quello della coscienza di poter essere una voce inedita che segue la pubblicazione di Epic, significa attaccare il dato di fatto o la semplice interpretazione di un sentimento. Significa il coraggio di essere disposte a esplorarlo, anche se questo significa porsi domande senza risposta (We all make mistakes / We all try to free / The sighs of the past / We don’t want to last / Need love erase to let out my mind?, in All I Can) o arrendersi davanti all’evidenza di un rapporto forse destinato a una sola conclusione (It’s bad, it’s bad, it’s bad / To believe in any song you sing” — / Tell me this even though you can’t believe it / Tell me I’m wrong / Tell me you’re lonely / Tell me this song is not about you only / And I’m a lie). Come i cinque stadi che serve percorrere prima di accettare una scomparsa, Sharon Van Etten percuote, senza superare mai la linea che alla rabbia preferisce la delusione o il sentirsi inadatta, per rappresentare un mondo proprio, la sincerità di sentirsi ancora nel mezzo del ‘caos’, rivendicare il diritto – e perché no – il dovere dell’ascolto nella sofferenza, fino a quasi farsi male. Una voce aperta, ma mai chiara fino in fondo, che ti parla all’orecchio ma come da lontano. Il percorso di Sharon Van sembra essere scandito proprio dall’interpretazione che ne dà lei stessa, vera chiave per comprendere il punto di Tramp, il simbolo di una transizione che segna il passaggio alla maturità di Are We There, ben prima delle svolte elettroniche e più distese, di Remind Me Tomorrow.
When I sit down and write, it’s not like, I’m going to sit down and write now. I’m going through shit and it’s my therapy for myself. That song you quoted. It’s about… like… unhealthy love, you know? It’s trying to visualize looking for somebody, even if it’s emotionally battered and you’re waiting for that person. Who hasn’t gone through that? Who hasn’t loved someone so much and yet knew that it was wrong?
Sharon Van Etten x Vice, 2014
Ciò che rende Sharon Van Etten una fra le interpreti, probabilmente, più sincere degli ultimi anni è l’osservare la sua crescita, imparare a comprendere questo suo modo di reagire che si è evoluto attraverso l’esperienza, sulle linee di passaggio, dalla grande città fino al centro del mondo, riassunto in un’unica e totalizzante interiorità. In questo senso, molto più di Remind Me Tomorrow, è Are We There il punto che capovolge la storia di Sharon Van, con i primi tratti elettronici, i primi ritmi, come un’apertura oltre la realtà. Una necessità di ampliare lo spettro malinconico o non lasciarsene impossessare del tutto. Saperlo manipolare, piuttosto, dandogli una scossa dai tratti rock una volta allontanata la ferita, così da poterla portare orgogliosamente sul palco. Come un percorso propedeutico con cui farsi conoscere prima di essere totalmente a proprio agio per poter raccogliere il punto di comunione con i propri ascoltatori.
Cinque anni sono tanti, quelli che annunciano il ritorno di Remind Me Tomorrow portano una Sharon Van inevitabilmente cambiata – la parte di Rachel in The Oa, la nascita di un figlio, il trasferimento a NY, l’università di psicologia – eppure sempre fedele alla trasposizione di una malinconia, ora, forse, per i momenti passati, per i secondi che non torneranno più, come fa presagire il titolo dell’album. Una sorta di introspezione, che guarda al futuro, che amplifica le possibilità del proprio storytelling in una maniera diversa, quasi materna, nel modo di trattare le armonie che da sempre ne hanno contraddistinto la parte musicale. Un modo tanto decadente, quanto angelico, di ritrovarsi cresciuti, di ritorno, in fondo sopravvissuti, dalle delusioni di Because I Was in Love, dalla presa di coscienza di epic o la serena ingenuità di Are We There. In Remind Me Tomorrow il core diventa così chiaro da non necessitare di troppe parole, che si riducono all’essenziale anche per una questione ritmica, di tempo e di effetto che Sharon Van vuole dare alla propria rappresentazione. Qualcosa di più immediato, che non guarda più al passato in maniera negativa, con punti poco chiari o situazioni mai concluse. Un modo per celebrare piuttosto il presente, segno che quella malinconia, in fondo, ti resta attaccata ma nel corso della vita può essere anche la soluzione per non perdere di vista la propria strada.