Recensioni

Shame: con il cuore in mano

Secondo album per i londinesi Shame, tra i nuovi enfant prodige della scena post punk indie britannica, a due anni di distanza dal promettente esordio Songs Of Praise. A ispirare le undici canzoni di Drunk Tank Pink, in uscita il 15 Gennaio su Dead Oceans, è il silenzio in cui versa la musica live, lo stesso silenzio della stanza rosa in cui il leader Charlie Steen si è rinchiuso a scrivere durante i lockdown di quest’anno. Un silenzio improvviso che ha spezzato l’intensa routine della band, fatta di live club, chilometri, aerei e hangover, ottenuta con l’ottimo debutto. Se aggiungiamo la crisi identitaria scaturita dalla pandemia globale, è facile delineare l’incipit di questo nuovo lavoro.

In cabina di regia c’è James Ford (Arctic Monkeys, Foals, Gorillaz, Florence And The Machine), un primo valido motivo per candidare la band ai primi posti della scena indipendente internazionale. A fare da apripista al disco i tre singoli Alphabet, di cui merita menzione il video diretto da Tegen Williams, Water In The Well e la recente Snow Day che lasciano presagire un approccio più ambizioso e profondo, con un cambio di sound e di stile.

A scanso di equivoci, non mancano chitarre graffianti e nervose, urla e una buona dose di sana strafottenza che non collide con una maggiore introspezione. Urgenza espressiva ed essenzialità fanno il resto. Lo spoken-sing di Steen e le incursioni funky di Sean Coyle-Smith aprono a soventi cambi di ritmo (Nigel Hitter, Born in Luton, March Day) mentre improvvise esplosioni di noise si alternano a ritmi decisamente più misurati (Snow Day). Il tema della human disconnection (Human, for a Minute), il complesso senso di incertezza, rabbia e disagio (6/1) lasciano spazio anche all’incendiaria punk love song Harsh Degrees e all’esplosivo furore di Great Dog. Station Wagon è la traccia più lunga del disco e lo chiude alla perfezione, lanciando un messaggio di fiducia nel futuro con “There’s a new station wagon and it’s hitting the road”.

Drunk Tank Pink è un disco che conferma la band di South London come una tra le più interessanti realtà in circolazione e apre una finestra sulla sua dimensione più intima e personale. Consigliato.

Stefano Grimaldi

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