Sarebbe stato meglio non parlarne, almeno per Giulio, per il sangue che deve aver buttato prima, cercando di essere compreso e appoggiato dal paese da cui era partito, e quello che gli hanno tirato fuori dopo, nelle strade egiziane, senza che si sapranno mai davvero le ragioni. Sono troppi i motivi per cui la verità, quella che cercava lui stesso, non verrà mai del tutto a galla. Partnership commerciali, di cui l’Italia è il principale sponsor, geopolitica e un pessimismo di fondo che, ormai, stringe la mano con il disincanto e la sfiducia nel rapporto che abbiamo con chi aveva promesso di proteggerci. Le questioni in sospeso sono tantissime, e i dubbi ancora di più, fra le primissime indiscrezioni e tutto quello che sta piano piano uscendo dalle fogne della sommarietà con cui il giudizio di vita e morte si è abbattuto. Non abbiamo i mezzi e i termini giusti per poter avventurarci nel giornalismo investigativo, e ci facciamo da parte, prendendo un’altra strada che ci è più vicina e da cui non possiamo prescindere. Giulio Regeni è stato ucciso facendoci sentire scoperti e fragili ma, ancora di più, ha riproposto alcuni temi che non possiamo più continuare a rimandare, in cui la poca risolutezza di chi ci governa è solo una piccola parte.
Il Manifesto è stato uno dei primi quotidiani italiani a muovere le acque, insistendo con forza sulle ragioni politiche dell’omicidio, rispetto a quelle circostanziali legate a una rapina finita male, versione fornita nelle prime ore dal governo egiziano. Sono poi emersi i primi risultati dell’autopsia, le ossa fratturate dalle percosse, le orecchie tagliate e il viso martoriato, una simbologia che ha costretto il governo italiano a chiedere spiegazioni, ormai costretto a non poter guardare e basta. Uno sforzo profondo, naturale quasi, per uno di quelli che, fieramente, spacciavano per un loro reporter ma che, in realtà, non lo è mai stato. Ad affermarlo è stata una persona a lui vicina, che ha confermato come i suoi articoli fossero sempre stati rifiutati, per poi essere utilizzati per una manciata di copie in più, finché il sangue era ancora caldo. Discorso che non si può restringere solo a questa testata, rea di aver usato questo materiale in modo controverso, ma anche a tutto quel sistema culturale che non ci sentiamo davvero in grado di poter considerare immune a questa pratica. Non si tratta solo di strumentalizzare, ma di una stanca presa in giro. Siamo una generazione abituata ai rifiuti e, quasi, ci stupiamo quando accade il contrario. Possiamo deprimerci o rispondere con forza, lasciarci alle spalle quelle ferite e continuare o, semplicemente, smettere. È così che funziona. Essere pubblicati è qualcosa, sì, ma che non vale la morte.
La mossa del Manifesto non ci deve solo stupire ma innescare dei meccanismi contrari, pensando a come qualcuno di noi, che credeva nelle possibilità di riscatto di alcuni paesi (fra cui il nostro, perché quegli articoli non sono stati spediti in un’altra lingua), abbia lasciato le proprie speranze in modo disumano. E non basteranno le scuse, non basterà trovare i colpevoli e nemmeno le risoluzioni di Onu e Stati Uniti a cancellare quello che è successo, e quella certezza che siamo utili solo da morti per un paese come il nostro, che prima affossa e poi finisce per lucrare sulle lacrime di qualcuno. Dovremmo dire basta.
Noi ci siamo ancora, lui no. E siamo in quel sotterraneo del non pagato, dei buoni pasto e dei rifiuti senza davvero ricevere spiegazioni. È dura emergere, lo sapevamo, ma anche avere risposte che possano farti crescere. Quello che stiamo perdendo, in una guerra che non sappiamo nemmeno più a cosa abbia portato, non sono solo alcune delle opinioni più reali, di chi mette in gioco la propria vita per ricostruire, senza necessità di farne eroi o martiri, ma la capacità di distinguere. Riuscire a capire da che parte sia il vero marcio, che non è detto venga sempre da dentro, e di chi siano queste responsabilità. Il silenzio ha sempre ucciso, ma lo fa anche il giudizio sommario, e la mancanza di possibilità. Credere è ancora importante, come capire quali siano le cause, non solo di questo omicidio e di tutti gli altri, in cui la nazionalità c’entra davvero poco. È molto più facile arrendersi a un potere che ti schiaccia, rispetto a uno che silenziosamente ti priva della speranza e, forse, Giulio Regeni lo aveva compreso, ma per quello non si era arreso, come non lo fa chi, con rischi e modalità diverse, ci prova ancora.
So che Giulio mi perdonerà se lo chiamo per nome, anche se non ci siamo mai conosciuti, ma ognuno di noi dovrebbe sentire la responsabilità di ciò che gli è successo. Chi l’ha brutalmente ucciso come chi, domani, dopo frasi e ricordi costretti, se ne dimenticherà. Perché ci sono tanti tipi di morti e, davvero, non se ne può fare una graduatoria. Chi sporca la memoria, anche solo per sopravvivere, dovrebbe fare i conti con le idee per cui è nato.