Se il fumetto può diventare arte: da Lichtenstein in poi

Quando nel 1962 Roy Lichtenstein con una personale a New York esponeva le sue prime opere al pubblico contaminava ufficialmente l’arte con stili presi dalla cultura “bassa”, popolare. In piena sintonia con i tempi Lichtenstein dà forma artistica ad un aspetto della cultura popolare: il fumetto. Unendo l’arte pittorica al disegno commerciale trasforma questa forma popolare e sintetica di comunicare un racconto in forma d’arte. Il suo nome si legherà indissolubilmente a quelle immagini ingrandite di fumetti riprodotti in grande scala. Lichtenstein unisce l’arte pittorica al disegno commerciale e genera una nuova immagine espressiva: un’ immagine banale diventa opera d’arte. Negli stessi anni Andy Warhol realizzava quadri con immagini di comics e successivamente molti altri artisti hanno utilizzato nelle loro opere elementi tratti da questo universo iconico.

Il meccanismo innescato dalla Pop Art e dai suoi maestri Andy Warhol e Roy Lichtenstein viene ereditato dai più giovani Keith Haring e Basquiat. Entrambi graffettisti  si esprimono attraverso immagini sintetiche, scheletriche, divertenti come i comics della loro giovinezza. Ma non è solo il mondo dell’ Arte a lasciarsi contaminare. Le influenze sono reciproche.

In disegnatori come Jim Steranko si riscontrano forti elementi di Pop Art e Surrealismo visibili nelle psichedeliche atmosfere dove inserisce immagini in collage con vignette piene di colori accesi, ispirandosi proprio a Warhol. Nelle storie del suo personaggio della Marvel, Nick Fury, molti critici hanno individuato un suo stile particolare chiamandolo “Zap Art”.

Will Eisner, il padre della Graphic Novel, con il suo “The Spirit” reinventa completamente la struttura delle vignette, dei dialoghi e del movimento dei personaggi: John Law, Lady Luck, Mr. Mystic, Uncle Sam. I titoli delle sue vignette sono elementi curiosi e innovativi perché non più collocati prima della storia ma fusi con l’ambientazione. Nell’introduzione al libro che rende omaggio alla saga che ha consacrato Frank Miller a genio indiscusso  “Sin City: L’arte” si legge : “Le storie sono soltanto una scusa che il fumettista usa per poter disegnare. E questo è un libro di disegni, una celebrazione dei disegni di un fumettista che ama disegnare.”

A ventun anni dalla nascita della saga è evidente l’originalità e la capacità artistica di Miller espressa nel suo tratto. Non ci sono figure in bianco e nero ma una vera e propria lotta tra luce e ombre. Non una sfumatura. Il bianco è quasi abbagliante e il nero è color pece. L’artista che ha reinventato Daredevil e Batman e che ha narrato al grande pubblico le gesta eroiche di 300, tornerà con il sequel previsto nel 2014 “Sin City: A Dame to Kill For”, diretto sempre da Robert Rodriguez.

La pop art americana è il principale punto di raccordo tra arte e fumetto, ma è negli ultimi decenni che le contaminazioni tra questi due generi si sono fatte sempre più frequenti, assumendo soluzioni diverse. Paul Mc Carthy è un esempio eclatante. L’artista californiano parte dall’immaginario infantile per esprimere attraverso video, performance e sculture il lato più oscuro dei mass media. Personaggi giganteschi e colorati come cartoons in atteggiamenti dichiaratamente equivoci creano atmosfere estranianti. McCarthy rende i personaggi delle favole protagonisti di scene inquietanti forse non troppo lontani da quelle offerte dai media al mondo dell’infanzia.


Non è lontano da questo tipo di estetica Takashi Murakami, da anni considerato un’icona dell’arte contemporanea internazionale e influente rappresentante della cultura giapponese. Decisamente Neo Pop i suoi acrilici ipercolorati e le sculture levigate sono  creature prese dal mondo manga e dalla filosofia commerciale che si fonde fusa alla cultura tradizionale giapponese. Murakami da vita a personaggi ed emblemi dalla fisionomia ibrida: fiori sorridenti, funghi giganteschi, panda multicolore, autoritratti, con i quali ironizza sulla cultura giapponese.

In Italia, a differenza che in America, la critica negli anni della Pop Art ragionava ancora per compartimenti stagni per cui esporre un illustratore in un museo o in una galleria risultava comunque un’anomalia. Hugo Pratt, Milo Manara e Crepax, rivoluzionarono il mondo del fumetto organizzando la tavola non più lineare come nei comics americani. Questi tre maestri provengono dai giornaletti di massa e approdano alla cosiddetta autorialità, che proprio negli anni Sessanta stabilisce un netto discrimine tra il commerciale e il ricercato.

Hugo Pratt, forse il più celebre fumettista italiano, è uno dei pochi che ha raggiunto fama internazionale. I suoi disegni e le sue storie sono vere e proprie opere d’arte. Pratt parte dal fumetto è approda all’arte con gli acquerelli che sono il felice connubio tra una splendida iconografia e intensi racconti. Nei primi anni Settanta diceva: “Io faccio della pittura…forse figurativa? La pittura può essere molte cose. Io posso dire che dopo l’esplosione della Pop art in America, tutto il mondo ne parla quando in verità, tutto è partito dai comics. Io, ho cercato di fare una cosa diversa… lavorare in un altro senso. La Pop art è un fumetto ingrandito; i pittori si sono impadroniti di questa forma popolare per fare dei quadri tratti dal fumetto. In verità, io prendo una porzione di uno dei miei disegni e la ingrandisco. Io non prendo il disegno intero. Prendo una parte di 1 centimetro e la ingrandisco a 2 metri così quella parte diventa astratta. Ma rimane sempre un fumetto.

Milo Manara

Le “Veneri di Milo” sono diventate proverbiali già negli anni Sessanta. Con Milo Manara si parla di “fumetto d’autore” ancora vietato ai minori. Lo si può controllare alla Galleria Ca’ de Fra’ a Milano dove espone una personale fino al 23 novembre. Le anatomie delle sue veneri ricordano bene la scultura dell’antichità classica e la passione per la storia è ravvisabile nelle loro avventure.

Il binomio arte e fumetto oggi è una costante viva nell’esperienza estetica  anche in Italia, soprattutto nella vicenda letteraria, in quella cinematografica, nella moda e nell’architettura. Il talento di Andrea Pazienza, fumettista e pittore, era così grande che lavorò anche per le copertine di alcuni dischi di Roberto Vecchioni, e Fellini lo volle per disegnare la locandina di La città delle donne. Quest’anno cade il 25° anniversario della sua scomparsa. Pazienza cercava una corrente artistica, sovversiva che riuscisse attraverso personaggi come Pentothal, Zanardi, Fiabeschi a esprimere lo spirito di una generazione di sognatori disincantati nel clima del ’77.

Due fumettisti di cui si parla molto in questi anni sembrano fare una cosa molto simile.

Gipi (Gian Antonio Pacinotti), fumettista e regista, è capace di raccontare tante storie con punti di vista sempre diversi: che parlino, in maniera più o meno autobiografica, delle ombre dell’ infanzia come in “Esterno Notte”, o come in “S.” o dell’età adulta come in “La mia vita disegnata male”, il cinismo e il tono grottesco che utilizza riflette in maniera ironica la nostra società. Il suo stile coinvolgente, volutamente impreciso, fatto di colori a olio su supporto grigio creano un gioco di ombre degno di un grande direttore della fotografia. Lasciano l’impressione di aver appena visto un cortometraggio.

ZeroCalcare ogni maledetto lunedì rende, suo malgrado, uno spaccato generazionale fatto di degrado, corruzione, precariato. Ogni storia nasce da eventi quotidiani vissuti e raccontati con realismo sarcastico e incazzato. Evidenti influssi pop, trash e surreali di grande valenza onirica rendono le sue storie irresistibili. Le scene sono forti e divertenti. I colori brillanti. Palesi le influenze dell’underground americano ma c’è soprattutto tanta inventiva, creatività indipendente e pura che fa di lui un fenomeno ormai capace di sfornare un libro ogni sei mesi. A ottobre è uscito l’ultimo “Dodici”.

Da Lichtenstein in poi il fumetto diviene opera d’arte e sicuramente un mezzo espressivo che poteva contenere canoni artistici. Il mondo dell’arte è da sempre la tela sulla quale ognuno è libero di lasciare un’impronta. C’è solo un confine che condiziona l’espressione artistica: la realtà del tempo e la necessità di cambiarlo. Proprio per questo Corto Maltese diceva che “Bisognerebbe travestire la realtà da sogno.”

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