Se fare lo scrittore è meglio che fare l’operaio

Quello sporco ce l’hanno entrambi ma il nero sulle mani è diverso, anche se l’inchiostro non lo usa quasi più nessuno e il grasso di motore, invece, quello che non te lo togli nemmeno con la benzina, è rimasto lo stesso. Da una parte la carriera (carriera?) dello scrittore, una delle vocazioni più dolorose e meno gratificanti che tutti sembrano voler fare in questi tempi bui, sogno tanto comune da poterci costruire sopra una macchina per fare soldi in televisione. Dall’altra quella dell’operaio, altrettanto faticosa e piena di rospi da buttar giù ma che quasi nessuno si può più permettere. Perché c’è l’università, perché c’è l’alfabetizzazione, perché c’è la crisi e nessuno si ricorda dell’operaio Gildo ma tutti si ricordano di Carlo Emilio Gadda. O, meglio, perché nessuno si ricorda del defunto metalmeccanico Rossi della defunta Olivetti ma tutti vogliono essere Fabio Volo. Un po’ come la campagna #coglioneNo, che a un operaio non diresti quello che dici a un creativo, ma tutti comunque vogliono essere creativi come già affrontato su queste pagine in questo articolo.

Dicevamo, tutti fanno gli scrittori ma nessuno vuole fare l’operaio. Ed è strano perché fare lo scrittore, spesso, ha a che fare con il fare l’operaio. Non soltanto perché dovresti essere un tornitore di parole e muovere le dita sulla tastiera con gesti automatici, ma perché per mantenerti, se vuoi davvero fare lo scrittore, o sei ricco di famiglia o devi fare prima fatica per poterti lanciare nel degradato mondo della letteratura. O hai la fortuna di scrivere il tuo primo romanzetto per Mondadori e toglierti l’impiccio di dover lavorare almeno un giorno della tua vita e, se ti fanno un film con dentro Elio Germano o Alba Rohrwacher, puoi essere un Paolo Giordano felice per il resto dei tuoi giorni. La verità è che non va mai a finire così e ti ritrovi a essere considerato sempre più operaio che scrittore e, se questo ti fa male, è perché davvero, oggi, fare lo scrittore è meglio che fare l’operaio. Questa è l’epoca in cui se dici a tua madre, magari mentre stai ancora studiando o, peggio, hai già finito, di voler fare l’operaio c’è il caso che ti svenga davanti. Se invece senza vergogna alcuna, e sono pochi i veri scrittori che lo fanno, le dici di voler scrivere per il resto della tua vita, cosa non si sa, per quello ci vogliono anni di riflessioni ontologiche sul senso della scrittura a sue spese, c’è il caso che ti dia pure credito e che accetti il tuo stare a bighellonare su internet. Il fatto è che la vita è da un’altra parte. E lo scrittore è da un’altra parte, e anche l’operaio. Questo perché troppi film, troppi gossip e troppi poster hanno smussato l’idea che la carriera dello scrittore non sia una qualifica autocucita sul petto, senza vittime e prigionieri. Una carriera qualsiasi, come quella dell’operaio, piena soltanto di gloria e soldi quando invece non è così, perché ci vogliono anni per emergere e se ci vuole poco tempo significa che duri poco e non perché ci muori ma perché non lasci traccia. E, alla fine, il conto delle morti bianche della scrittura, quelli del romanzo d’esordio e poco altro, non si conta. Di operai Salinger, che pubblicano un Holden e si ritirano, o di operai Boccuzzi, che dalla strage della Thyssen si ritrovano in parlamento, ne passano pochi. Tutti gli altri che lottano, dalla scrivania della propria cameretta al forno elettrico di Piombino, non se li ricorda nessuno.

Certo, la carriera dello scrittore dopo anni di fatiche, di lavoretti e precarietà un domani migliore, una volta su mille, se lo assicura. L’operaio no, perché o se ne va o è destinato a beccarsi merda nelle narici per tutta la vita ma, vent’anni fa, si diceva che almeno si faceva un lavoro rispettabile. Adesso di lavori rispettabili ci sono solo quelli creativi, quelli con cui ti guadagni la fuoriserie e le donnine nude. Come lo scrittore che guadagna bene, che quasi mai coincide con quello che fa qualcosa di buono. In questo aspetto si uniscono le due vite, quella dell’operaio e dello scrittore che, prima, si avvicinavano ma mai coincidevano. Prima era più semplice, all’operaio era chiesto di produrre e di non pensare. Allo scrittore il compito di pensare ma non di produrre. E invece di assistere alla nascita di uno scrittore-operaio, di quelli alla Calvino dell’operaio Massolari per intendersi, capace di raccontare non solo la fabbrica ma, molto più sinceramente, una realtà qualitativamente decente, abbiamo visto nascere lo scrittore che produce e guadagna ma, raramente, pensa, perché la parte profonda dei sogni spesso ce la dimentichiamo. E allora se puoi fare lo scrittore conosciuto da tutti, che guadagna bene e si passa bene il mondo, perché dovresti fare l’operaio? Senza contare che, oggi, se sei uno scrittore non capito e che scrive per se stesso non vuol dire che sei merda, ma se sei un operaio di una fabbrica che produce ma non può più vendere per il ristagno economico finisci in cassa integrazione o, peggio, in mezzo alla strada.

La questione, in realtà, non riguarda essere operai o scrittori. Nessuno, potendo, farebbe l’operaio o il minatore, la prostituta o l’addetto di un call center. La realtà è un’altra. Lo si fa perché non c’è alternativa. E anche questo è lo scrittore, non può fare altro, non per noia o per pigrizia, non per moda o per passione, ma perché sa qual è il suo ruolo e, per farlo, accetta di essere altro. Non scrittore a tutti i costi o perché è bello scrivere. Ma perché accetta il suo ruolo, che spesso significa non essere compreso per anni, essere sottovalutato da amici ed estranei, dover fare migliaia di lavori senza qualifica per poter aspirare a produrre il meglio che può offrire. Ma non è che scrivere sia meglio di fare l’operaio se non te ne frega niente della letteratura e l’hai letto su una rivista. È la questione culturale, del sapere che se credi in qualcosa di più grande di te e pensi che ti arrivi come per miracolo, stando sempre fermo con i sogni di una ragazzina, la tua vita, allora sì, può essere peggio delle dieci ore in fabbrica mal pagate del defunto operaio Rossi. Con la stessa sincerità con cui qualcuno si dice di non essere fatto per l’università e si cerca da lavorare, così qualcun altro dovrebbe accettare di non essere creativo, pittore, scrittore, fumettista, web designer, grafico e cose varie. Perché poi ci vivi meglio e fai vivere meglio anche gli altri che, magari, qualcosa da dire ce l’hanno davvero.

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