Quel duro lavoro per emergere

Graffiti in Chicago via Wikipedia

Quel fattaccio brutto dell’essere esordienti, un pesante bagaglio a cui alle poche soddisfazioni bisogna aggiungere la delusione dell’essere continuamente respinti. Un po’ come l’amante che non si concede e quel semi autotomatismo nel riempire innumerevoli buste, limare i suoni fino all’inverosimile, costruire portfolio capaci di creare nuove cattedrali con l’accusa del disboscamento sulle proprie spalle. È un momento complicato, che non passa quasi mai per un colloquio con le risorse umane, spingendo al fallimento e all’abbandono più rapidamente delle altre strade. Questioni oggettive, più o meno. Si finisce sempre a pensare alle grandi carriere e al momento in cui hanno iniziato a risplendere per non fermarsi più, ognuna a suo modo. Dimenticandosi che, prima di arrivare nella massima serie, hanno ristagnato per anni in quelle inferiori, nei vuoti degli scantinati o dentro le cucine di un qualche snack bar sull’undicesima. Ci credevano, fino in fondo, e pensavano di meritarsi qualcosa per cui erano nati ma che non gli fosse, per forza, garantito. Che lavorare duro per mantenersi nella stamberga fosse doveroso pensando a quello che sarebbe arrivato dopo, un investimento tragico su di sé per affondare il colpo. Come se i momenti di sofferenza che si nascondevano dietro alcune creazioni non fosse abbastanza. Non per i soldi, ma per il cuore trafitto dalle parole e dai contorni di un disegno non ancora definito. Potenzialità che non sono del tutto cambiate, forse perché a farlo sono state altre cose.

Tanti problemi non si sono mai risolti, altri hanno cambiato coordinate senza lasciare traccia. C’era qualcosa di diverso in quello che le persone pretendevano da se stesse e dagli altri, tempo fa. Le cadute facevano più male, non solo dentro, e in pochi potevano davvero permettersi un atterraggio sicuro. Kerouac aveva 22 anni quando conobbe per la prima volta Allen Ginsberg e un altro mucchio di artisti mai esplosi, residui delle università e di tante altre dipendenze più o meno affettive. Durante gli anni della marina aveva scritto, senza mai finirlo, Il mare è mio fratello (uscito postumo nel 2012, a rivangare una storia), quattro anni dopo metteva il punto alla pagina 499 de La città e le metropoli, pubblicato solo nel 1950 dopo una serie interminabile di rifiuti. Così come lui tanti altri, che farebbe solo male tirare fuori, stelle nate, cresciute e spentesi ancora prima.

Ho visto le migliori menti della mia generazione che mangiavano fuoco in hotel ridipinti
o bevevano trementina in Paradise Alley, morte, o si purgatoriavano il torace
notte dopo notte con sogni, con droghe, con incubi a occhi aperti, alcol e cazzo e balle-sballi senza fine,
che vagavan su e giù a mezzanotte per depositi ferroviari chiedendosi dove andare, e andavano, senza lasciare cuori spezzati.

(A. Ginsberg, Urlo, 1958)

Trackl, Keats, Novalis, Dylan Thomas e tutti gli altri, scoperti presto o tardi sono riferimenti dolorosi. Reggere il confronto è il mezzo più veloce per la caduta. Non serve a nulla sentirsi giovani favolosi a questo mondo, se non a farsi abbandonare da chi ancora crede in qualcosa. E, soprannomi scomodi come quello, fanno più male che bene. Il conteggio da fare è più una questione su quanto tempo ci si vuole dare, prima di lasciare la nave. Davanti alla certezza che, ormai, essere respinti non è più soltanto una questione di qualità. Sono cambiate tante cose e anche essere giovani, ormai, è una giustificazione che trova il tempo che uno vuole darsi. Una scusa dietro cui nascondersi ma che regge poco al confronto di come il mondo corre rapido. Forse perché anche la letteratura è stata assorbita da alcune crisi ed è dovuta diventare uno specchio in cui i lettori, invece di vederci riflessa la propria parte più nascosta, possano vedere come sarebbe stato essere dall’altra parte, diventare famosi e pieni di ammiratori. Gli esordienti ci sono, e continuano a uscire pagando per lo più di tasca propria, ma se alcuni punti non sono intercettati è facile comprendere il perché.

Questioni di specchi che si guardano da soli, dicevamo. Nel 2014 la youtuber britannica Zoe Sugg, AKA Zoella, ha pubblicato un libro chiamato Girl Online, edito dalla Penguin Books, di certo non l’ultima arrivata nel campo. Nella prima settimana è stata capace di vendere 78mila copie, arrivando nella top 100 dei best sellers del New York Times a fine anno. Interrogati dalla stampa, gli editori e la Sugg, hanno dovuto confermare che il ghostwriter Siobhan Curham fosse stato interpellato come consulente per la scrittura. Lo scorso ottobre è uscito il secondo volume, sempre sotto la supervisione di un editor senza dare lo stesso scalpore. Davanti a questo successo, finiti i libri di cucina della Parodi et similia, Newton Compton ha provato la stessa mossa pubblicando La casa dei sogni di CutiePieMarzia, al secolo Marzia Bisognin, tra i canali più seguiti di YouTube. Certo, si sta parlando di best sellers e con la letteratura vera hanno poco a che fare e di cui, molto in fretta, perderemo le tracce, ma si tratta oggettivamente di un percorso impari per la maggior parte di chi ancora non riesce a superare l’ostacolo della prima lettura. Non è una questione nuova, anche al tempo di Hemingway e di Proust i libri commerciali riempivano le casse di Scribner e Gallimard e nessuno si scandalizzava. La verità è che potevano permetterselo e la scelta era ancora piuttosto ristretta. Oggi no. Il nuovo pubblico non è in grado di scegliere, fra una fusione e l’altra. Nessuno, nemmeno chi scrive, davanti ai prezzoni, senza consiglio, arriverebbe a scegliere un autore semi sconosciuto, non lo facciamo con chi è già alla seconda ristampa da quarant’anni, figurarsi con Enrico ventenne esordiente da Trento.

E, all’inizio come alla fine, ci sono le storie che si raccontano. Cosa chiediamo davvero a un romanzo in questo momento? O, sguardi tristi e bicchieri in mano, dobbiamo convenire sul punto che, forse, sia un linguaggio morto, in cui le persone non cercano perché, effettivamente, non ne hanno più bisogno. Che di storie ne hanno già scritte, e forse anche migliori di quanto potremo mai produrne. Allora forse anche emergere non è più una necessità se si finisce a parlare allo stesso muro contro cui si imprecava quando una parola non voleva incastrarsi.

La strada è bruciata, come dicevamo, ma nemmeno così tanto. Lo è perché molti sono stati complici dello stesso problema in cui si trovano immersi. Da un lato le case editrici che, pompando best sellers scadenti, si sono ritrovati impossibilitate a prendersi dei rischi. Dall’altro i lettori, tanti o pochi che siano. Il fatto è che, per ora, oltre a un residuo di resistenza ai limiti del sadismo, se la rotta non verrà invertita, di libri che possano raccontarci di quando ci trovavamo senza riferimenti sarà difficile raccoglierne, e così di avanguardie o di generazioni nuove. E non capire di non essere soli, a un certo punto, è un dramma che non si ricuce più. Ma il 2016 è appena cominciato, con tutte le sue possibilità ma, sinceramente, qual è l’ultimo libro uscito durante i vostri ventanni capace davvero di raccontarvi?

Exit mobile version