Se lo scorso anno non avete vissuto su Marte e non appartenete ad una fede religiosa che proibisca per qualche assurda ragione il post-punk, avrete colto anche voi l’emergere di una figura, di un progetto, che, lungo tutto il 2012, non ha smesso di attirare l’attenzione di tutti, grazie ad uno charme fatto di innegabile personalità, talento e un attraente alone di mistero. L’hype generato sin dai primi filmati di esibizioni live, incredibilmente teatrali ed intense, è stato senza fretta sostenuto dalla pubblicazione prima di un doppio singolo e poi di un EP live, I Am Here, che documenta la fiammante carica live della band, sorretto da un ottimo lancio, con un’estetica identitaria ed efficace.
Le Savages sono un quartetto con base a Londra, che ha appena pubblicato Silence Yourself, il primo, attesissimo, meditato esordio full lenght. 11 brani per quasi 40 minuti di post-punk piuttosto canonico, sporcato da violente eruzioni noise e graffianti echi post-hardcore, tutto suonato dando prova di un’abilità non indifferente e di un’invidiabile intensità nell’interplay. Proprio per questa intensità, sin dall’inizio di Silence Yourself a colpire è la perenne tensione che pervade il susseguirsi di ritmiche serrate, linee di basso agili e incisive e chitarre taglienti, in una produzione cupa ma cristallina, per pezzi tanto scarni e minimali quanto caotici e consegnati con un’urgenza davvero impressionante.
Le influenze sono di certo chiare e incelabili: tutto il post punk anni 70 e 80, dai groove à la Gang of Four alla poesia dei Joy Division, fino alle angolature di area P.I.L. e la cupa irrequietezza Bauhaus, con anche fascinazioni abrasive dai Mission Of Burma al post-hc americano. Nonostante la smaccata discendenza dello stile e dei suoni, però, non si può fare a meno di subire il fascino unico del quartetto, come fossero il progetto post punk definitivo e tentassero con questo disco una resa impeccabile e furente della carica e dello spirito di tutto il genere. Incuranti dell’avvicendamento dei trend, ma solide e determinate, consegnano un disco in cui, se non tutti i pezzi funzionano quanto gli altri, sicuramente ci sono episodi che sfiorano la sintesi perfetta, resi peraltro con una performance irresistibile.
Non bastassero il talento e la qualità strumentale, il tutto è governato dalle carismatiche declamazioni della frontman, Jehnny Beth; un magnetico incontro tra la drammaticità di Lydia Lunch e l’appeal di una Siouxsie con più frustrazione, con i tratti esoterici della Patti Smith più ispirata, ombrata di un accostamento alla prima Karen O quando la voce si avvicina a registri più alti e gracchianti. I testi esplorano senza riserve storie di lussuria, scontro, rabbia, scoperta, decostruzione e vie più dolorose (le uniche) per un’autentica emancipazione.
L’indole conflittuale e aggressiva della band manifesta la filosofia fondante del progetto: la concentrazione ricercata come unica via all’autocoscienza in una quotidianità frammentata da distrazioni. Diventare, rimanere, intensi, nella riflessione, nella ricerca della verità circa se stessi, circa il proprio universo emozionale e sensoriale, come mezzo obbligato per un’autentica liberazione.
Il punto della poetica non è l’emozione come vezzo stilistico, quella da sospiri, bensì quella che mozza il fiato, quella viscerale, autentica, che ti cambia, che ti controlla. Un’emotività radicale dunque, come ogni aspetto del progetto Savages. Come la loro estetica vincente; non una semplice brand identity astuta o un’immagine catchy che flirti con un immaginario, ma una via per un’espressione a tutto tondo di una visione consistente che guida il progetto dai primi passi, ne detta l’etica, ne disegna l’essenza.
Una visione autentica ormai rara all’interno della contemporanea manifestazione degli artisti, ormai anestetica, piatta, lontana da quell’autenticità che viene ricercata al limite come feticcio riflesso, mai come proposta costituente del proprio DNA artistico. Quello che rende, questa, una band unica e questo, un disco a tratti entusiasmante, è il significato che hanno, che svelano. Ha a che fare con l’auto-affermazione e l’auto determinazione, la liberazione soprattutto femminile (come potrebbe non esserlo) di gestire così tanti aspetti del proprio sentire e del proprio essere.
E se non tutto questo, Silence Yourself è un disco rock avvincente e selvaggio, drammatico ed emozionante, è un prodotto musicale di autentica espressione artistica, non banale intrattenimento, ma contenuto, qualità, scoperta.
If you are focused, you are harder to reach. Silence Yourself.
Matador/Pop Noire, 2013