In maniera sorprendente il nostro paese ha mosso un timido, ma rumoroso, passo in controtendenza al silenzio che ha caratterizzato l’ultimo anno e mezzo di governo gialloverde. L’invasione delle sardine nelle piazze italiane ha mostrato non solo la forza di un’opinione pubblica alternativa (almeno al pensiero unico delle destre) ma, anche, la sua stessa fragilità. Questo flusso si è posto in maniera netta contro chi, nei mesi di una campagna elettorale mai doma, ha continuato a buttare ombre nere e fumi negli occhi dei più arrabbiati, sdoganando le peggiori violenze che da virtuali sono finite a compromettere il linguaggio politico in strutture binarie e antidemocratiche. Da Bologna a Catania, da nord a sud, il movimento nato come flash mob per ribadire la tradizione di accoglienza e democrazia dell’Emilia Romagna, ha attecchito in tutta Italia portando nelle piazze migliaia di persone. Questo processo mostra un bisogno di oggettivare la propria resistenza attiva a chi vede questo paese secondo un modello ben preciso, dai tratti sovranisti ed esclusivi. Opporre, quindi, al linguaggio d’odio in cui sono caduti i social network e la discussione democratica, la stanzialità su cui si basa la collettività e il confronto. Non numeri o algoritmi, ma parole e corpi. La necessità della piazza, intesa come manifestarsi fisico di un’idea di collettività inclusiva, è un tratto fondamentale del rinascimento democratico di ogni paese ma perché questo accada è necessario che queste piazze comincino a parlare. Che superino, quindi, la semplice scintilla di opposizione, destinata a perdersi e a rendere ogni situazione l’occasione per arricchire il proprio album social di un momento qualsiasi, prima che tutto questo muoversi si risolva nella convulsione, nel rigetto e, di nuovo, nel silenzio.
Il corpo collettivo si ribella ma non riesce (per il momento?) a trovare un cervello comune, un piano comune di immaginazione, di programma, di strategia; non riesce a dar vita a un processo di soggettivazione cosciente e collettiva.
In maniera molto simile ai Friday’s for Future anche le sardine si muovono da una pretesa del tutto legittima che segue l’idea secondo cui opporsi e attivarsi sia il primo passo per resistere. Un concetto di resistenza sociale che, però, nel caso dei movimenti italiani mostra nel contempo tutta la sua incapacità di costituirsi come affermazione risolutiva, imporre un cambiamento effettivo nelle dinamiche democratiche in cui la maggior parte dei suoi membri sono cresciuti e continuano a svilupparsi. Da un punto di vista politico chi si oppone mostra la sua inesperienza giovanile, dall’altro la sua tendenza violenta che, però, non è in grado di convogliarsi in una scelta che preveda il sacrificio di ciò che possiede. Proprio quello spazio, legato alla redistribuzione necessaria di risorse e posti di lavoro, su cui fa leva il sovranismo e l’esaltazione di una specifica selezione di individui, con determinate caratteristiche, genomi e qualità. Opporsi, del resto, è un gesto istintivo ma che, in questo momento storico, ha necessità di essere preparato, di costruirsi uno scudo a tutte le critiche (giovanilistiche, sensazionalistiche, volgari) a cui sarà dato in pasto. Non serve citare i nomi dei giornali dai toni assolutistici, ormai basta frequentare la sezione commenti di qualsiasi pagina per vedere come le dita di una grande quantità di persone siano più pronte a indicare l’errore più che a comprendere il ragionamento o a muoversi nella direzione di un miglioramento.
La sfida del clima e quella delle sardine si sviluppano attraversando uno spazio senza confini, su questioni evidenti che, in questo momento storico, non lo sono tout à fait per tutti. Uno spazio in cui nessuno sembra avere la capacità di imporsi secondo una tradizione politica o ideologica, di chi si è rinchiuso nei palazzi, che ha smarrito le armi dialettiche per farsi comprendere o ha una figura talmente distrutta da non poter dare più fiducia. Questo vuoto ha, giocoforza, perso le menti più giovani e inesperte, lasciando che fosse il proselitismo nazionalista a farcirle con semplici opposizioni nominali prive di contenuti intellettuali. Queste sfide evidenziano il vuoto della sinistra ma, anche, della nostra stessa identità. Il movimento delle sardine si mostra come il canto delle sirene, che attrae questi insoddisfatti marinai destinati a schiantarsi contro lo scoglio di una realtà che, posati i manifesti e le frasi a effetto, ritorna alla vita di tutti i giorni. Un rischio meditato che si rifugia nelle esigenze di un sacrificio necessario, da cui però la necessità che nasca qualcosa si fa ancora più pressante. In maniera paradossale il cambiamento più affascinante, per alcuni, forse troppi, oggi appare destinato al ritorno al passato, fomentato alla creazione di nazioni chiuse e selettive, mentre quello vero, che vuole uno spazio di realistica giustizia, ha perso i suoi contorni e la capacità attrattiva. Chi cerca un’alternativa, come ultimo soffio di speranza, in un modello economico e sociale che è già morto da tempo si condanna alla sconfitta.
L’abbassamento dell’attenzione e il culto per il ragionamento sono state le prime vittime di un mondo che non ha più bisogno di pensare, avendo riconosciuto in forme materiali e dialettiche il proprio nemico. La rabbia non sarà repressa da una piazza, ma le fiamme possono essere spente ricominciando a darsi un ruolo e dei contenuti. Ricominciando a crescere da dove tutto si è fermato. Ricominciando a far parlare le piazze di qualcosa e non contro qualcuno, rappresentando non uno, ma tutti, prima che la catastrofe, non politica, non sociale, ci tolga tutti di mezzo. I canti delle sirene sono l’ultima speranza destinata a menti e coscienze stanche, che si oppongono ancora con tutte le forze alla seduzione di idee politiche nere e chiuse, di chi ha mollato e dà la colpa ad altri per la sua fine. Il sasso è lanciato e qualcuno sarà costretto a raccoglierlo o finirà per essere affondato e, noi, con lui.