Il sangue si mastica ma non si sputa, me lo ripeteva sempre mia madre. Credo che in questo vecchio proverbio che si tramandava nella mia famiglia si racchiuda il senso del libro di Sara Mesa, “La famiglia”. Una sorta di lessico famigliare distorto in cui senza paura si scandagliano le profondità più recondite dei rapporti che intercorrono all’interno delle mura domestiche di una famiglia che dall’esterno appare come irreprensibile.
Ognuno di noi, almeno i più sinceri e onesti, sa che la famiglia è croce e delizia, alfa e omega di quello che diventiamo da persone adulte. Ogni dinamica che intercorre o che manca con i nostri genitori, a prescindere dal modello di famiglia in cui cresciamo, ci segna per la vita. In questo solco si inserisce il libro di Sara Mesa, portato in Italia da La Nuova frontiera. L’autrice spagnola però aggiunge una struttura che sceglie un punto di vista mobile. In qualche modo è come leggere una ricostruzione tramite interviste ai vari testimoni di cosa sia successo su una scena del crimine.
L’indagine di Sara Mesa quindi ci porta all’interno della famiglia in cui i genitori vengono chiamati per (quasi) tutto il libro Madre e Padre. Dei componenti della famiglia all’inizio non sappiamo molto e alla fine non sapremo tutto, ma tramite episodi che spesso non riguardano direttamente i vari protagonisti del libro scopriamo dettagli delle loro vite. Anche grazie ai pettegolezzi dei vicini di casa riusciamo a entrare nella vita dei protagonisti molto più in profondità di come avremmo fatto se ce lo avessero raccontato i diretti interessati. Martina, detta Martinita, adottata di cui non sapremo che fine hanno fatto i veri genitori. Damian impacciato e imbolsito che combatte perennemente col suo senso di inadeguatezza. Rosa che cerca di rompere il cordone ombelicale con i suoi genitori per poi provare a ritornare sui suoi passi.
I capitoli si alternano senza una linea temporale prestabilita e il disorientamento iniziale, che si prova non avendo ancora punti di riferimento precisi, col passare delle pagine lascia il posto a una sorta di dolorosa rassegnazione. Siamo spettatori di dinamiche che forse abbiamo provato in prima persona, tifiamo perché qualcuno dei figli riesca a trovare la sua strada, la sua ribellione come anche noi abbiamo fatto in passato e forse non abbiamo fatto mai.
La famiglia siamo tutti noi, sono tutte le nostre vite, sono i nostri fratelli, i nostri amici, i nostri cugini, i nostri genitori che sono stati a loro volta figli prima di noi. Nessuno esce vivo dalla propria famiglia. Ogni scrittore, come diceva Veronica Raimo in apertura del suo “Niente di vero” prova per tutta la vita ad ammazzare narrativamente la propria famiglia salvo poi ritrovarsela immancabilmente viva e vegeta.
Così Sara Mesa, in chiusura di uno dei suoi capitoli migliori, usa una metafora che racchiude il senso più profondo del libro: prendiamo una serie di piccoli rametti, se proviamo a spezzarli singolarmente si piegheranno facilmente ma se li leghiamo stretti insieme resisteranno facendosi forza a vicenda. È altrettanto vero, però, come fa notare Aqui, il più piccolo e sveglio dei figli, che i rametti stretti tra loro rischieranno di soffocare e morire.
Il sangue si mastica ma non si sputa, quello stesso sangue rischia di farti strozzare. La famiglia è così, il libro di Sara Mesa ce lo dice con una scrittura affilata che non fa sconti, rappresentandoci dei borghesi piccoli piccoli in tutto e per tutto simili a vite che potrebbero, o forse sono, anche le nostre.