Santigold – 99 cents

Per Santi White aka Santigold è arrivato il momento di fare i conti con l’uscita del terzo album, la prova più temuta da ogni artista, qualunque sia la sua notorietà e bravura. L’esordio della cantautrice statunitense risale ormai a otto anni fa quando portò in sala di registrazione Santogold, il trampolino di lancio che le permise di collaborare e di aprire i concerti di M.I.A. e dei Beastie Boys, tanto per citarne due. Passando dalle ritmiche electro/ska e caraibiche di Santogold alle atmosfere più riflessive e cupe di Master of My Make – Believe, Santigold pare non volersi arrendere di fronte alla monotonia dei suoni e decide così di tentare nuove sperimentazioni, in parte ritornando alle origini, ma soprattutto volgendo la rotta verso porti ancora inesplorati.

99 cents si apre con Can’t Get Enough Of Myself, un brano di quelli che ci si ritrova a canticchiare sotto la doccia senza neanche sapere il perché o a ricercare disperatamente su Shazam nel brusio concitato dei locali affollati. Si tratta comunque di un pop senza pretese, ma finemente confezionato, in grado di stuzzicare il palato come sa fare un antipasto. Sulle note di Big Boss Big Time Business si cominciano ad addensare i toni tra sfrizionature dub e battaglie di freestyle rap, in cui Santigold sembra modulare la voce come Yolandi Visser dei Die Antwoord. Banshee è, invece, tra i momenti più elevati dell’album, scritto a quattro mani insieme a Cathy Dennis, la reginetta britannica della pop-dance a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, che ha influenzato il gusto di moltissimi gruppi e personalità di successo (anche a loro insaputa). Il prodotto di questa collaborazione assomiglia a una marcetta militare cantata da un gruppo di scolarette giapponesi impegnate a scalare il Monte Fuji.

Spesso Santigold è stata incolpata di sfruttare le innumerevoli amicizie e collaborazioni per la fama e se qualcuno volesse ancora continuare a fare il malpensante non sarebbe certamente 99 cents a cancellare quest’idea. Quello che si può, però, comprendere ascoltando una canzone come Chasing Shadows prodotta e scritta con Rostam Batmanglij dei Vampire Weekend è che il mondo di Santigold è rappresentato soprattutto da quella capacità onnivora di attingere da diversi bacini musicali, lasciando la sua impronta, non rubandola a terzi.

Di questo disco rimangono prove riuscite come quella appena citata di Chasing Shadows dove le infestazioni reggae si sposano perfettamente con la melodia di un piano, ma anche tracce meno brillanti come Who Be Lovin Me cantata insieme a ILoveMakonnen. Più che insieme sembra che il rapper e Santigold non siano particolarmente entusiasti di mescolare le proprie voci, creando così un pezzo fatto di campionature fredde di studio e niente più. Lo stesso accade in Before The Fire, dove la tensione cresce senza mai esplodere veramente o in All I Got che si esprime soltanto attraverso un ritornello ovattato, privo di energia.

Oltre alle sonorità, 99 cents raccoglie anche temi molto diversi tra loro. La paura dell’ignoto che si trasforma in attrazione è centrale in Walking In A Circle, dove mondi di plastica si scontrano nelle notti sudate dei club rischiarate soltanto dai flash dei cellulari. Il ritmo rimane in sordina, ma è chiaramente percepibile tra le voci robotiche. Anche la maternità e la capacità di dare un futuro diverso alle nuove generazioni sono argomenti di dibattito di un album che si fa tante domande e pretende altrettante risposte.

Alla soglia dei quarant’anni Santigold ha scoperto come produrre un concept album, senza dimenticarsi di far divertire e di giocare con i suoni. Non ci sono distacchi uditivi neanche quando si passa da un sintetico motivetto che ammicca al pop francese degli anni ’80 come nel caso di Rendezvous Girl, artico e sensuale allo stesso tempo o nell’acido ingarbuglio new wave dal titolo Outside The War o ancora in Run The Races, dove la sua voce si fa più cupa per poi rifulgere in arie quasi liriche interrotte solo da schitarrate melodiche e composte.

Anche Who I Thought You Were, l’ultima traccia del disco ci fa ballare mettendoci, però, di fronte a una riflessione: le vertigini sonore sempre più colorate rappresentano l’inganno di una società di sorrisi falsi e di comportamenti dettati dall’egoismo e dall’ambizione sfrenata. Qualsiasi azione diventa compulsiva e lo è anche il mangiare questo disco, impossibile da non divorare. Le dodici tracce che si nascondono dietro alla copertina ci parlano di questo mondo di plastica e di spazzatura che è quello dove noi viviamo e in cui il riciclo diventa sinonimo di finzione. Continueremo ad ascoltare dimenandoci felici, ma forse un pensiero biodegradabile ci inghiottirà.

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