Si suol dire che l’arte migliore nasca dalla sofferenza, ed è un po’ ciò che è accaduto con Santa Sangre dell’eccentrico regista di origini cilene Alejandro Jodorowsky, ai più noto come autore di grandi successi underground come El Topo o La montagna sacra. Siamo alla fine degli anni Ottanta, e Jodorowsky stava passando un periodo di empasse e profondo malessere legato a gravi problematiche economiche. La realizzazione di Santa Sangre è stata possibile solo grazie a un atto di mecenatismo da parte del produttore Claudio Argento (fratello di Dario e già responsabile della resurrezione di George A. Romero con Zombi) e del regista Roberto Leoni. Il connubio si è tradotto in un film magistrale, forse il più celebre e amato dell’autore.
Misto di esoterismo e horror, incentrato su macabri e creativi omicidi, Santa Sangre è un teatro dell’orrido e del bizzarro con protagonista Felix, un giovane con un passato circense, segregato in un ospedale psichiatrico a seguito di una serie di eventi traumatici che, riuscito a fuggire alla prigionia, si riunisce alla madre disabile (alla quale il marito aveva tagliato le braccia prima di suicidarsi), papessa della setta di Santa Sangre, intraprendendo un percorso segnato da ritorsioni e violenza.
Opera eccessiva, complessa per spunti autobiografici, Santa Sangre è una rivisitazione blasfema e ancora più grottesca di 8½, imbottita di peyote e imbevuta di sangue e umorismo malato che si nutre di cinema (oltre a Federico Fellini, un altro regista omaggiato a piene mani è Tod Browning per la carrellata di “freaks” pittoreschi presenti in scena) e di virtuosismi. L’utilizzo incessante del flashback è ciò che occorre a Jodorowsky per imprimere al racconto un’inquietante ciclicità che porta passato e presente a rincorrersi di continuo in un turbinio di situazioni sempre più assurde e scene oniriche.
Se la linea temporale inizialmente può apparire confusionaria e poco fruibile, alla fine il tutto si incastrerà perfettamente per dar corpo a morbosità e cinismo figli dell’istinto di sopravvivenza e della volontà di prevaricazione. Ancora una volta Jodorowsky si appropria di un microcosmo di emarginati per raccontare con creatività allucinata (e spiccata inclinazione per l’esoterismo) quei sentimenti d’amore e sofferenza che alimentano la vita prima di ottenere una forma di valorizzazione nella morte. Un’opera gigantesca e visionaria, alla quale è necessario abbandonarsi abbattendo qualsiasi resistenza per poterla davvero vivere, come qualsiasi altra pellicola di Alejandro Jodorowsky.