Autofiction. Reportage. Diario. Romanzo di formazione.
Sanguemisto (La Nuova Frontiera, 2022), più che una parola che abbraccia tanti generi diversi, incarna un’identità ibrida, indefinibile, tutta da costruire, anche a costo di fare i conti con il passato proprio e quello della propria famiglia. Un passato che emerge con forza e frammenta l’individualità e la crescita della protagonista, sempre sospesa in un limbo, in una fase liminale a cui non riesce a sottrarsi, perché i dubbi, le contraddizioni, le incertezze che la accompagnano sono scolpite nel suo nome, nel suo corpo. E risalgono fino al suo antenato più famoso, l’esploratore austriaco Charles Wiener. Per alcuni un glorioso avventuriero, uno scrittore interessante, per altri un ladro. Un colonizzatore come tanti che affollarono l’America del Sud in passato.
In conclusione del capitolo che chiude la prima parte del romanzo, la protagonista riflette sul fatto che «essere migrante è anche vivere una doppia vita. È vivere con una benda sull’occhio. È sospenderne una per essere funzionale nell’altra» e richiama la condizione del migrante descritta da Brodskij, lo scrittore russo che l’ha provata sulla sua pelle. L’esperienza traumatica che richiama «quella di un cane o di un uomo catapultato nello spazio dentro una capsula», una capsula con molte fessure, aggiunge Adrian Bravi. Che somiglia alla paradossale situazione che vive il Giano Bifronte, dotato di un doppio sguardo, interno ed esterno, attraverso cui trova il distacco per guardare e raccontare. Uno sguardo plurimo e ibrido, sempre sospeso, che osserva al contempo avanti e indietro, come quello della protagonista di Sanguemisto.
Passando attraverso la ferita lasciata dal lutto, i sensi di colpa, gli abbandoni e le gelosie, Wiener racconta il conflitto permanente di una storia personale che non si libera del proprio passato, oppresso dal colonialismo e dal razzismo, ma lo affronta, lo supera per cercare uno spazio franco dove sentirsi finalmente libera di esprimersi e di non definirsi, libera dalle proprie contraddizioni.
Gabriela Wiener, tra le scrittrici peruviane più affermate, è stata caporedattrice di Marie Claire Spagna ed è autrice di quattro libri di reportage e una raccolta di poesie. Per La Nuova Frontiera ha già pubblicato nel 2012 in Italia Corpo a corpo. Ho incontrato l’autrice alla Nuvola di Fuksas, a Roma, in occasione della sua presentazione alla rassegna Più libri più liberi la scorsa settimana.
Per la traduzione ringrazio Gianluca Cataldo.
Partiamo dal titolo. Il titolo originale dell’opera è Huaco retrato e fa riferimento proprio alle ceramiche preispaniche che non di rado rappresentavano i volti degli indigeni. Cosa aggiunge e cosa toglie il titolo italiano Sanguemisto a quello originale in spagnolo?
Il cambio del titolo risponde all’esigenza di restituire il senso di fondo della mia esperienza narrativa con un’espressione che fosse chiara anche al pubblico italiano; mi sembrava che Sanguemisto, meglio di altre parole come mezzosangue, riassumesse l’intenzione e il significato complessivo della mia opera. Huaco retrato sarebbe stato intraducibile in italiano senza perdere il suo valore simbolico. Se da un lato quindi la variazione del titolo perde questo valore, dall’altro restituisce una connessione più diretta ed empatica con il lettore italiano.
Il corpo, che lei definisce “un oggetto archeologico o antropologico”, è un aspetto centrale del romanzo che ha un riscontro concreto negli ultimi studi postcoloniali. Il colonialismo emerge tradizionalmente come una dimensione maschile e fallocentrica, in cui il corpo femminile diventa il centro di produzione della sessualizzazione del corpo inscritto all’interno di un processo riproduttivo sociale e razziale. Com’è avvenuta e come avviene ogni giorno in lei questa decolonizzazione del corpo? E che rapporto mantiene con il suo corpo?
È un rapporto complesso di cui questo romanzo è testimone. Sanguemisto entra nel dibattito degli studi post-coloniali, o meglio anti-coloniali, che escono dal mondo accademico e si intrecciano inesorabilmente con processi più ampi, come le lotte femministe o anti-razziste, innescando da un punto di vista pratico una successione che conduce a un cambiamento importante, necessario. Riguardo il corpo, devo dire che mi riconosco nelle parole della scrittrice Cristina Rivera Garza che parla di “scrittura geologica”, aprendo a una visione in cui corpi sono percepiti come territori. Territori violati, colonizzati, basti pensare al dramma delle sterilizzazioni forzate in Perù per cui tante famiglie attendono ancora giustizia. Io, come molte donne, sono vittima del sistema patriarcale e occidentale che definisce un canone di bellezza eurocentrico e razzista per cui il proprio corpo non è bello, non rientra nei limiti rigidi di questa classificazione anacronistica e anche questa è una forma di violenza. Di prepotenza indotta dalla società che, come la bellezza fisica, non passa indenne, ma lascia ferite, cicatrici visibili sul corpo.
“Abbiamo tutti un padre bianco. Voglio dire, Dio è bianco. O almeno questo ci hanno fatto credere. Il colono è bianco. La storia è bianca e maschile. Mia nonna, la madre di mia madre, chiamava mio padre, il marito di sua figlia, “don” perché lei non era bianca ma chola, un incrocio tra bianco e indio. Mi sembrava stranissimo sentire la mia nonnina che si rivolgeva a mio papà con quell’eccessivo e immeritato rispetto.”
Il suo trisavolo durante la permanenza in Sud America ha sottratto quattromilacinquecento ceramiche preispaniche e anche un bambino, comprandolo, eppure è stato un personaggio di grande notorietà. È come se in questa contraddizione si consolidino una serie di paradossi che minano la formazione della sua identità, divisa tra due continenti, tra un nome e un cognome che parlano due lingue diverse, tra due passati che la dividono a metà. Come ha superato questo conflitto oggi?
La protagonista del romanzo è al contempo huaquero e huaco, incarna entrambe le anime di colonizzatore e colono, di aggressore e aggredito in un conflitto permanente. Se da un lato non può fare a meno di utilizzare sempre Wiener, un cognome bianco, occidentale, rassicurante, dall’altro è smentita dall’aspetto fisico. Il conflitto non può essere superato, anzi è giusto che persista, che ricordi alla stessa protagonista e agli altri quello che è stato il trauma originario, dove tutto ha avuto inizio: il colonialismo. Il conflitto vive e abita nel mio corpo, convive con me. Non c’è altro modo che ricordare per fare in modo che quello che è stato non succeda mai più, che i danni, le morti, la violenza non siano avvenuti invano.
L’ibridismo della sua identità in formazione nel romanzo si rispecchia anche nella scelta di genere che si colloca a metà tra Bildungsroman e autofiction, nello stile che deve confrontarsi con una lingua che unisce orgoglio e vergogna, producendo un effetto di creolizzazione che scardina ogni sistema rigido e si avvicina all’orizzonte emergente della “letteratura-mondo”. Come giustifica questa massiccia presenza di autofiction oggi? E perché lei ha scelto l’autofiction questa volta e non ha affidato la storia a un’altra voce, un altro personaggio?
Io ho sempre scritto in prima persona, in particolare ho sempre lavorato a testi ibridi a metà tra romanzo, reportage e diario, indefinibili, difficili da classificare, che potrebbero a far pensare a una “letteratura in crisi”. In realtà io non credo che sia la letteratura a essere in crisi, quanto i generi. Mentre scrivo, cerco sempre di reinventarmi, di mettere in dubbio ogni mia certezza, ogni banale convinzione, persino le fondamenta stesse di quanto scrivo. Sono contenta che il risultato letterario non rientri in nessuno schema rigido, in nessuna classificazione canonica. Tornando alla prima domanda, non saprei spiegare il motivo di questa massiccia produzione di autofiction oggi, credo che sia una scelta personale di ogni autore e vada sempre rispettata. Nella finzione può esserci molta più verità di quanto sembri.
Mi hanno molto colpito le tre citazioni in apertura: Ariosto, Wiener, Boll. Tre testimonianze molto diverse che si rivelano strumenti utili per interpretare i diversi filoni del romanzo. Le chiedo soprattutto perché Ariosto?
Ho deciso di inserire la citazione di Ariosto, perché era stata utilizzata da Charles Wiener in Perú y Bolivia. Relato de viaje. Era un suo grande lettore.
E adesso? Che progetti ha per il futuro?
Sto scrivendo un romanzo che spero di terminare a marzo. Un grande romanzo russo.