Salone del Libro di Torino 2024: la spinta vitale e irrinunciabile di una vita immaginaria

 a cura di Ilaria Del Boca e Umberto Scaramozzino


Un appuntamento annuale

a cura di Ilaria Del Boca

Spesso il successo di certi eventi è chiaro dai primi istanti, senza dover per forza attendere di leggere la nota stampa conclusiva. Si capisce dalla luce che brilla negli occhi dei partecipanti, dal tono dei loro discorsi e dai sorrisi che si possono intravedere distintamente. E quindi, che la XXXVI edizione del Salone del Libro di Torino abbia accolto consensi da parte di pubblico, editori e organizzatori era ovvio a chiunque abbia attraversato i padiglioni del Lingotto anche solo per un paio di ore.

222.000 è il numero complessivo dei visitatori di questa edizione, la prima diretta da Annalena Benini, che arriva dalla sua esperienza giornalistica al Foglio, di fondatrice e curatrice dell’inserto settimanale “Il Figlio” e della rivista culturale “Review”. Un anno di preparativi l’hanno condotta insieme al suo team alla scelta del tema “Vita immaginaria”, che trae ispirazione dalla raccolta di articoli di Natalia Ginzburg, apparsi per la prima volta nel 1974 e pubblicati nel 2021 in una nuova edizione a cura di Domenico Scarpa.

Da bambini e da giovani, essere soli e in ozio significava per noi costruire immediatamente luoghi immaginari, e vicende e storie, di cui eravamo i protagonisti. Luoghi e storie, li riempivamo di persone, alcune inventate, altre scelte nella nostra vita reale. Nell’infanzia, le persone inventate erano di più, e noi avevamo l’impressione di costruire i nostri scenari per loro. Le persone reali, là a quel tempo ci sembravano prive d’importanza.

Ed è proprio nelle parole di questo saggio di Natalia Ginzburg che possiamo individuare la vera essenza del Salone del Libro, che ha moltiplicato gli spazi dell’immaginazione per le bambine e i bambini di ieri, oggi e domani. Leggere è un punto di partenza, un modo per avvicinarsi a universi fittizi e reali, ancora da esplorare. Generazioni diverse e distanti sono unite da un filo invisibile dalla curiosità di scoprire il titolo di un nuovo romance su TikTok o di un saggio geopolitico sull’inserto culturale del weekend.

Il Salone del Libro insegna che non è rilevante il mezzo per intercettare le lettrici e i lettori giusti per ogni storia, l’importante è riuscire a coinvolgerli in qualsiasi modo. Sono loro i protagonisti che innescano il tam tam sui social network, che determinano quali saranno i trend editoriali e i libri che venderanno di più. Ora sembra quasi scontato dirlo, ma è da questo principio che è rinato il Salone del Libro prima con Nicola Lagioia, che per sette anni ha creduto in una fiera che fosse veramente di tutti, e oggi con Annalena Benini, che ha accolto il suo testimone con entusiasmo e inventiva.

Per molte persone che amano la lettura darsi appuntamento a maggio al Lingotto è una costante che si ripete ogni anno. Una magia che dura cinque giorni e che regala un ritorno all’infanzia a più di un adulto.


L’eroica idea del Salone

a cura di Umberto Scaramozzino

C’è un’idea che si muove veloce tra i padiglioni di Lingotto Fiere, tra la sale del Centro Congressi, tra i corridoi dell’Oval, fin sul tetto della Pinacoteca Agnelli. Arriva giovedì mattina, si mette in coda quando albeggia ed entra per prima. Vuole arrivare davanti all’icona Torre di Libri finché non c’è nessuno, per girarci intorno in totale libertà. Quest’idea si è plasmata quando è stato scelto il titolo del Salone e da allora non ha fatto altro che muoversi, in tutte le direzioni, fino a toccare ogni autore accolto nel ricchissimo programma. Forse è per questo che, nonostante non ci sia un direttore con la bacchetta in mano, tutti gli interventi più interessanti del Salone sembrano suonare come un’orchestra sinfonica.

La nostra idea nasce come una coraggiosa contrapposizione al villain di questa storia, che si chiama “se non ne vale la pena, non fatelo”. Questa è la caustica frase da cui Manuel Agnelli ci mette in guardia, mentre sul Palco Live discute con Stefano Senardi di musica e arte in genere. Un diktat che ci arriva dall’alto, ogni giorno. Forse anche di lato, finché non lo sentiamo giungere persino dal basso. Deve produrre un risultato, deve valerne la pena. Ma cosa significa valerne la pena? Trovare la risposta nella letteratura sarebbe una follia, anche perché come disse Milan Kundera in una celebre intervista con Philip Roth: «lo scrittore insegna alla gente a cogliere il mondo come una domanda». Ogni romanziere, giornalista, regista, cantautore, commediante o saggista incontrato in questo Salone, a modo suo, ha cercato di coltivare questa domanda, non tanto per fornire una risposta, quanto per sovvertire quel demotivante messaggio con la forza esortativa del suo opposto. “Fatelo, scrivete”. Ecco la nostra eroica idea.

Attenzione: non si tratta dell’altrettanto tossica narrazione del “se vuoi puoi”, che di questi tempi miete vittime come un tritacarne impazzito, pronto a inghiottire tutti quelli che credono che il fallimento sia una colpa, il frutto della propria incapacità. Eh no, perché imparando a riconoscere la trappola performativa della nostra società impariamo anche che c’è così tanto fuori dal nostro controllo da avere il dovere morale di essere indulgenti con noi stessi. Quantomeno gentili. Si tratta più dell’impulso vitale a generare, senza che questo debba essere finalizzato a un risultato di successo. I numeri devono necessariamente essere eclissati dal bisogno di vivere la nostra vita immaginaria. Quest’idea è doppiamente incoraggiante: per chi aspira a scrivere e scopre che l’intera rete intellettuale mondiale è tenuta insieme da qualcosa di più elevato di una formula replicabile, ma anche per chi legge, perché scopre di nutrirsi di qualcosa di salutare, biologicamente giusto per il nostro spirito.

Persino Paolo Sorrentino, ai microfoni di Francesco Piccolo, nel suo irresistibile cinismo non può fare a meno di evidenziare quanto il cinema, o meglio, la sua scrittura, sia la necessaria evasione da una realtà scadente. «A me dispiace, perché voi siete venuti qui perché siete interessati a me, ma il problema è che io non sono interessato a me». Citazione dell’anno, ma anche lo specchio di chi è più interessato alla vita immaginaria, che non alla realtà. Insomma: le vie sono tante, alcune traverse, ma la destinazione sembra sempre la stessa.

«Non importa quanti no riceviate, perché vi basta un solo sì», dice Don Winslow in Sala Azzurra. Lui che oggi può vantarsi di essere uno dei più noti e apprezzati autori americani contemporanei – ma anche di essere amico di Stephen “Freaking” King – ma al quale tante volte hanno sbattuto la porta in faccia, cercando di convincerlo che la sua opera non avesse il valore che tutti noi oggi riconosciamo. Stessa sorte per lo svizzero Joël Dicker, che intervistato dal buon Linus ci racconta che oggi è una macchina da bestseller, ma a 27 anni aveva deciso di arrendersi perché non faceva altro che ricevere rifiuti. «Questo è l’ultimo tentativo», si disse accingendosi a scrivere quello che avrebbe dovuto essere il suo ultimo romanzo. Il titolo era “La verità sul caso Harry Quebert”, ovvero uno dei più più grandi casi letterari dello scorso decennio. Quell’unico “sì”, fu definitivo.

La vita immaginaria nasce dunque come spinta vitale, persino evolutiva. Irrinunciabile, nonostante tutto. Ce lo dice Salman Rushdie, in dialogo con Roberto Saviano all’Auditorium Giovanni Agnelli, il tempio del Salone del Libro. «Hai mai odiato il tuo libro?», chiede Saviano, riferendosi al romanzo “I versi satanici” (1988) che gli portò minacce di morte, tentativi di assassinio e una fatwa, ovvero una condanna a morte in contumacia pronunciata dall’Ayatollah Khomeinī, guida suprema dell’Iran dal 1979 al 1989. «No, penso sia un bel libro», dice col sorriso Rushdie, emozionando l’intera platea. Sarebbe più facile rinnegare la sua opera, anelando a una libertà che sembrava riconquistata, prima dell’attentato del 2022 che quasi costò la vita allo scrittore indiano. Così come per Saviano, che non nasconde di essersi chiesto più volte se ne sia valsa la pena. Scrivere un libro, per poi pagarne un prezzo così alto da pensare che quel subdolo invito a “non farlo” sarebbe il canto di una sirena, al quale arrendersi dolcemente. Ed è qui che è ancora più importante farlo, resistere.

Anche Zerocalcare potrebbe limitarsi allo sfibrante firmacopie – anche se non sono firme, sono i suoi celebri “disegnetti” – ma sceglie la vita meno comoda, quella però più giusta per lui. Decide di uscire dal rifugio dei padiglioni e unirsi alla protesta pro Palestina in corso davanti agli ingressi di Lingotto Fiere. Lo fa in qualità di improvvisato mediatore, ma anche di uno dei pochissimi interlocutori reali, concreti e credibili sulla questione. Ancora una volta. Potrebbe fare come tanti altri intellettuali, omertosamente in silenzio, eppure anche se poco conveniente, anche se potrebbe non valerne la pena, lo fa.

Il viaggio del Salone si chiude al Teatro Carignano, con Alessandro Baricco che porta il suo western metafisico, “Abel”, sul palco. La nostra cara amica idea è arrivata anche qui, a chiusura del suo “viaggio dell’eroe” teorizzato di Christopher Vogler. Siamo nella fase del “Ritorno con l’elisir”, nella quale il protagonista torna al mondo ordinario, portando però con sé una lezione imparata, il simbolo della sfida affrontata. La nostra amica idea ora sa che, molto semplicemente, la letteratura è niente più che finzione e quella finzione è fondamentale, necessaria. Gliel’ha insegnato Nicola Lagioia sul Tetto del Lingotto. Sa che i libri diventano porte che conducono a infinite vite immaginarie, nella quale la realtà si complica, si articola e genera domande, pone questioni, destruttura le certezze. Ecco che insieme all’idea che scrivere sia più importante del suo risultato, si delinea il profilo di una manifestazione culturale, a questo punto forse la più importante e rilevante d’Italia, che è anche una fucina. Un terreno sempre più fertile per chi ama la letteratura, sia farla che goderne. Allora dateci una XXXVII edizione ancora più ricca e complicata. Dateci meno certezze, più domande, meno polemiche, più libri.

Umberto Scaramozzino

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