a cura di Ilaria Del Boca, Martina Neglia e Stefano Peradotto
tutte le foto sono di Ilaria Del Boca
La 32° edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino si conclude registrando un nuovo record espresso dalla cifra impressionante di 148.034 visitatori unici, ancora una volta in aumento rispetto all’anno precedente, dimostrando che, nonostante le polemiche scoppiate nei giorni prima dell’inizio della rassegna riguardo la partecipazione di Altaforte, la casa editrice di CasaPound, la fiera di Torino dedicata ai libri è in grado di attrarre persone da tutta Italia e da ogni parte del mondo. Il motivo di questa grande affluenza si può rintracciare nell’offerta sempre più variegata di presentazioni ed eventi, ma soprattutto nella capacità che il Salone ha di mettere in contatto le persone, avvicinando coloro che fisicamente e ideologicamente sono soliti abitare spazi diversi.
Il Salone è un punto di incontro dal quale ripartire, un luogo in cui potersi fermare e porsi degli interrogativi, ma anche uno spazio dove correre, mettersi in moto (il contapassi del telefono a fine di ogni giornata in fiera lo conferma) e non temere di mettersi in discussione sia con gli altri che con se stessi. Come ogni anno anche Torino ha potuto beneficiare di questa attenzione mediatica, diventando per cinque giorni e cinque notti la capitale della cultura che non è (e non deve essere) soltanto quella degli intellettuali, ma appartenere a tutti indistintamente dall’età, dal genere e dal grado di studio.
Sangue, sudore, Salone
“Oh, oh Saviano! C’è Saviano! Ciao Savianoooo!”
Non si fa in tempo a varcare i controlli (quest’anno particolarmente severi, vanno abbandonate anche le temibili borracce-molotov) dell’ingresso al Salone del Libro di Torino che immediatamente si viene travolti da una fiumana di persone – esseri informi inarcati sotto il peso di shopper, tomi enciclopedici, macchine fotografiche – tutte all’inseguimento di una star della scrittura. Il programma di questa edizione è ricco e gli scrittori di successo, primo o dopo i loro incontri, gironzolano volentieri tra gli stand, accerchiati da fan, curiosi, cacciatori di selfie. Per il comune visitatore questo comporta una deumanizzazione che lo rende più simile al salmone in faticosa risalita della corrente: in virtù di qualche misteriosa deformazione spaziale, ovunque ti giri sei controcorrente, fronteggiato da una torma di grizzly pronta a fagocitarti. Destreggiandosi con una spallata, un dribbling elegante, una furbesca deviazione fuori dai percorsi stabiliti, si riesce a raggiungere i diversi padiglioni.
“Ma quello è Alberto Angela! Albertoooo! Oh, Albertoooo!”
Se, almeno nella giornata di sabato, fuori dal Lingotto si ha avuto una spruzzata di pioggia e un rinfrescante venticello, dentro i padiglioni il caldo è tropicale. Armati di un immaginario machete, visitatori sudati fendono arbusti intricati e arti umani per avvicinarsi ai diversi stand. Gli espositori hanno gli occhi lucidi, febbricitanti. Agognano una sedia su cui piegare le ginocchia anchilosate e le schiene doloranti, un soffice materasso in lattice in cui affondare in un morbido abbraccio. Ma tengono duro. Anzi, con l’adrenalina del maratoneta che ormai ha scavallato i limiti della stanchezza fisica, affrontano ogni domanda con stoica lucidità. Ognuno ha portato al Salone le sue migliori novità che, con amore materno, propone al pubblico.
“Guarda, guarda Erri de Luca! Erri! Erriiiii! Una foto?”
Il bello del Salone del Libro, pur nella sua caotica e sfiancante essenza, è proprio questo. È una delle poche – se non l’unica – realtà in cui il legame uomo-libro è così stretto. Al Salone non si viene solo per acquistare libri (quelli, li trovi in ogni libreria) ma per conoscere e parlare con persone che di libri vivono. E non in senso biecamente imprenditoriale, bensì che li sfiorano, li assorbono, li interiorizzano fino a farne un’ulteriore proiezione del proprio io. Il libro che ti propone l’espositore al Salone è un libro in cui lui crede veramente. Una gemma che non vuole custodire per sé, ma la cui ricchezza diventa tale solo se condivisa, lucidata dal passaggio di mano in mano. Al Salone si respirano, oltre al sudore, amore e passione. E questo è il solo motivo che spinge un essere solitamente solitario come il lettore ad alzarsi dalla sua poltrona imbottita e a scambiare la sua beata tranquillità con il caos del Lingotto.
“Pif! Piiiiif! Dai, vieni qua che ci facciamo un selfie.”
Certo, il pubblico è vasto ed eterogeneo. C’è chi entra al Salone solo per fare vip watching, chi per collezionare firmacopie, chi per acquistare il solo libro che, nell’anno solare, entrerà nella sua casa, inesorabilmente destinato ad accumular polvere sul comodino. Ma lo zoccolo duro che macina chilometri spazzando in lungo e in largo i quattro padiglioni è composto da persone appassionate, che gli editori se li fanno tutti, che dialogano per scoprire qualcosa di inedito. A loro non importa delle vesciche che iniziano a pulsare nelle scarpe, della ressa, della disidratazione. I loro sensi consueti sono anestetizzati. A guidarli è una vaga percezione cromatica, un’usta visiva che, avvicinandosi, si va delineando nella copertina di un libro. Stringendo quelle preziose pagine tra le mani, facendole frusciare tra i polpastrelli per inspirarne l’aroma, sono paghi come il cavaliere arturiano che, dopo lungo peregrinare, poggia le labbra all’orlo del Graal.
“Oh, là, Fruttero e Lucentini, Fruttero e Lucentini!” “Ma se sono morti!” “Come morti? E allora il libro chi me l’ha autografato?”
Il sole, che si intravede dietro le montagne uscendo nei vari cortili, sta lentamente tramontando dietro le Alpi innevate. Stanco, il pubblico comincia a defluire. Colpevoli di aver sovrastimato le loro forze, alcuni si sono accasciati per terra, la testa sostenuta dalle braccia conserte. Forse passerà a recuperarli qualche pietoso familiare ancora in forze. Forse, li raccoglieranno gli addetti alle pulizie: vetro, plastica, carta, relitti umani. La camminata verso l’uscita assomiglia alla ritirata dalla Russia: le caviglie cedono, lo zaino rigonfio di nuovi libri sega le spalle, si cammina sforzandosi di non pensare. Basta solo mettere un piede dopo l’altro, un piede dopo l’altro. Poi, discesi in metropolitana, la notizia: “Dlin-dlong. Avvisiamo i gentili passeggeri che il servizio è momentaneamente sospeso per cause tecniche. Le corse riprenderanno al più presto.” Crisi, pianti, bestemmie. La rivoluzione francese concentrata nella fermata Lingotto. Si ergono barricate, tribunali improvvisati ghigliottinano controllori. Qualche temerario si avventura fuori: là, nelle vaste pianure, la leggenda narra del passaggio di pullman di linea diretti in centro. Illusi. Li vediamo incamminarsi con il loro fagotto di entusiasmo e presunta scaltrezza. Ancora non sanno che il pullman, se passerà, lo farà tra quarantanove minuti, carico di gente fin sopra il tetto, come un treno di Nuova Delhi.
“Chiedo scusa, dovrei passare.” “Oh senti Camilleri: non me ne frega niente che devi passare. Fai la fila come tutti gli altri.”
Insperata, un secondo prima del Terrore, la metro riprende a funzionare. Ci si stipa nei vagoni e via verso il centro, dove il Salone prosegue con vari eventi in città. Poi, un sonno simile alla morte, ché domani si ritorna al Lingotto. Perché il Salone è questo, sangue, sudore e passione. E non si può fare a meno di amarlo.
Incontri, ovvero quando anche cinque giorni non bastano
I locali del Salone del Libro si confermano anche quest’anno come quella bolla lontana dalle normali leggi dello spazio-tempo. Non importa se sei stato là dentro tre giorni e ne hai altri due davanti: ci sarà sempre qualche angolo che sfuggirà al tuo occhio, a volte attento altre assonnato, di visitatore. Non importa se hai corso per arrivare in tempo a uno dei tanti incontri a cui è toccato fare apertura: ti ritroverai alle quattro scoprendo di aver dimenticato di pranzare. E, soprattutto, in quelle ore sfuggite al controllo della tua coscienza, ci sarà sicuramente qualche grande e importantissimo incontro di cui già chiuse le porte e di cui forse ancora resistono spaesati residui di coda a serpentina tra uno stand e l’altro.
Aver aggiunto un nuovo padiglione non ha fatto altro che mostrare ancora una volta quanto il Salone sia tanto: negli ambienti; nelle persone il cui fluire a tratti diventa un ostacolo al proprio; negli stand incastrati non sempre a favore di utente; e soprattutto nel programma alla cui lettura va dedicata più di qualche ora di studio. Per poi ritrovarsi comunque, la sera del sabato, a esclamare rammaricati “ma oggi c’era Daniel Goldberg!” rimpiangendo il non essere nati in un universo in cui le giratempo funzionano davvero e non sono solo un gadget per potterhead. Al netto delle rinunce per sovrapposizioni e quelle giustificate da una fila che avrebbe richiesto troppo tempo (tempo, tempo, tempo), gli incontri che abbiamo seguito si sono rivelati vari, interessanti; più che soddisfacenti.
Scrittori che parlano con gli scrittori, e di altri scrittori
Il primo, il giovedì, non è un incontro ma un’inconsueta presentazione di quello che sarà il nuovo podcast di storielibere a cura di Violetta Bellocchio: una chiacchierata sulle ossessioni tra la scrittrice e Francesco Pacifico dentro una cabina insonorizzata, tra il via vai ancora non irrequieto del primo giorno. Scrittori che puoi anche fermare prima che vengano rapiti dagli impegni programmati di una fitta scaletta, e con cui scambiare due parole dopo mesi di messaggi anche fuori le righe su Instagram. Perché il Salone è anche questo: fermare e fermarsi, chiacchierare.
Scrittori che parlano con te e tra loro, soprattutto nel più classico degli incontri da fiera del libro: le presentazioni. Due quelle che abbiamo seguito e a cui era impossibile mancare per le persone coinvolte e i titoli che animano la produzione letteraria italiana. La prima: Vanni Santoni e i suoi Fratelli Michelangelo, accompagno da Gianluigi Ricuperati – in qualche modo figlioccio di Santoni in casa Tunué – e Christian Raimo; nonché dall’imbattibile parlantina e la consueta scelta di camicie di livello. E aldilà del libro di cui si è tanto discusso, l’intrattenimento viene tutto dai retroscena, dagli aneddoti, dalle battute tra i tre come quella di Raimo che all’improvviso condanna quasi a morte il Vanni scrittore con un emblematico “adesso puoi pure morire”. Da questa presentazione si è capito che I fratelli Michelangelo è un libro imperdibile – quanto mano per onorare lo sforzo lungo sette anni di cui ha avuto bisogno la sua realizzazione, che prima di seguire una presentazione del genere forse conveniva bere un paio di caffè e che i libri importanti vanno sempre riposti in libreria sopra ai propri – a patto di averne –, sia mai che quest’ultimi assorbano un po’ di grandezza.
La seconda riguarda invece due donne nell’ultimo pomeriggio del Salone. La prima, a presentare: Teresa Ciabatti; l’altra Eleonora Marangoni che con il suo esordio letterario, Lux, si è ritagliata un posto tra i dodici semifinalisti al premio Strega. Quando si parla di dare importanza alle scrittrici, dare loro spazio e supporto, forse tutti dovremmo prendere a esempio Ciabatti in quest’ora seduta al caffè letterario e l’entusiasmo speso per l’opera di Marangoni. Saranno stati cinque giorni di salone sulle spalle, ma il suo è stato davvero un tifo da stadio, per un titolo che si merita più di qualche riconoscimento e che speriamo di vedere anche in cinquina.
Scrittori che parlano di opere e di altri scrittori, siano essi vivi e vegeti – per fortuna! – o semplicemente immortali grazie alle opere che hanno concesso al mondo. E’ questo dopo tutto quello che avveniva in una sala non troppo grande del terzo padiglione: ritratti di scrittori da altri scrittori, come l’omaggio di Giorgio Vasta a Madame Bovary e Cime Tempestose. Un racconto dei due romanzi fatto da chi sa di dovere qualcosa alla letteratura e che di letteratura sa parlare. Tra letture, citazioni cinematografiche tra Woody Allen e Resnais, e più di qualche sorriso sorto dall’aver visto la figura di Michele Mari accostata a quella di Heathcliff, ascoltare Vasta parlare si è confermato ancora una volta uno dei piccoli piaceri della vita; un toccasana che sarebbe bene avere quanto meno una volta al mese.
L’editoria, tra celebrazioni e politica
L’editoria non vive però solo di chi i libri si limita a scriverli: esiste una rete capillare di figure professionali che il Salone quest’anno ha contribuito ad approfondire e divulgare. Si pensi ai tanti incontri dedicati alla traduzione, alla filiera del libro, all’importanza di fiere come quella di Francoforte. Ma se c’è stato un momento in cui si è sentito davvero il peso e lo spessore di un certo modo di fare libri e di fare editoria, quello è stato senza ombra di dubbio l’incontro tra due grandi: Roberto Calasso, editore di Adelphi, e Jorge Herralde, di Anagrama – rispettivi editori peraltro di Roberto Bolaño, uno dei tanti a cui questa edizione del Salone del Libro è visceralmente legata. Perdoneremo anche il caro Roberto per aver detto che “indipendente non è sempre sinonimo di buono” perché quella che si è respirata in quelle quattro mura è stata proprio la grandezza di due editori che si confrontano, ripercorrono la storia, dedicano ogni singolo intervento personale per omaggiare l’altro. Lavorare con i libri non è solo banalmente bello; è un atto politico nelle scelte di ciò che si decide di offrire. Adelphi è un punto di riferimento per chiunque viva di letteratura, non solo economicamente parlando, e scoprirne un pezzo attraverso le parole di due maestri è stato un dono di cui possiamo solo essere grati.
A dispetto di tutte le polemiche che hanno portato quasi ad aprire le porte del Lingotto nel peggiore dei climi possibili, fare cultura e farla in certo modo è sempre un atto politico. Non ci si può dichiaratamente schierare, forse, e si sono fatti sbagli che avrebbero senza ombra di dubbio giustificato un boicottaggio; ma ci sono stati degli incontri in cui quello che si è fatto è stato nient’altro che politica. Uno di questi portava il nome di Tutto il regno per te e ha visto Giulia Blasi, Francesca Mancini e Viola Lo Moro di InQuiete Festival, Linda Ravera e Loredana Lipperini confrontarsi, grazie alla moderazione di Valeria Parrella, sul lascito delle vecchie generazioni di femministe alle nuove e su come ancora il femminismo possa camminare ed evolversi, lasciando, ancora una volta, voce e spazio alle prossime. Dispiace sempre vedere gli spazi dedicati alle questioni di genere partecipati quasi esclusivamente da donne (sarebbe curioso anche studiare gli spazi che questo Salone ha dedicato alle scrittrici), ma probabilmente è ancora questo che dobbiamo fare: trovare luoghi in cui confrontarci, fare unione. Saremo marea. Una delle frasi dette durante l’incontro è “il femminismo è scomodo, è antagonista. Le femministe sono antipatiche” – dobbiamo fare pace con questo rischio e continuare a lottare, insieme. Perché nella lotta si sente tanto la fatica quanto la gioia.
La stessa gioia che nasce dalle feste e dal tenere in vita un progetto comune, fatto di penne, persone, lavori e soddisfazioni. Il 2019 è stato l’anno dei compleanni: 50 anni di Sellerio; 20 di Fandango; 10 di Bao Publishing. Ed è proprio a quest’ultima che abbiamo partecipato dotati di un luminoso e appariscente cappellino da festa. Vecchie e nuove leve della casa editrice milanese (Zerocalcare, Radice-Turconi, Ortolani, per dirne quattro a caso) che si sono confrontati sul loro modo di lavorare, i loro progetti, le loro opere del cuore. Una sala gremita di lettori che hanno popolato la Sala Oro e tante altre ancora, in un Salone che lontano da ogni previsione ha battuto ancora una volta il record di presenze.
Attraversando i corridoi del Lingotto e dell’Oval e fermandosi a parlare con gli editori, i veri protagonisti della kermesse insieme ad autori e lettori, l’unica nota non propriamente positiva riguarda l’energia che, forse in più di un’occasione è mancata. Non è facile capire se sia stato a causa delle controversie di cui abbiamo parlato sopra o più semplicemente perché lo spirito di partecipazione è venuto meno, ma l’augurio è che la rete complessa, ma capillare dell’editoria diventi ancora più solida, mettendo in relazione tutte le figure professionali, compresi i book blogger e influencer, un vero e proprio esercito di persone appassionate di libri (tremila gli accreditati alla fiera) di cui si è tanto parlato in questi giorni dopo un articolo apparso su La Stampa. Con le loro storie su Instagram e la curiosità che li muove a dialogare quotidianamente con i librai e gli uffici stampa delle case editrici non sono gli unici che hanno dato un’impronta diversa a questa edizione, ma sicuramente hanno trasformato il modo di entrare in contatto con una nuova pubblicazione o una riedizione. Un segnale di cambiamento non deve mai essere ignorato o screditato, fa parte del gioco e Il gioco del mondo è anche questo. Intanto, per dare il tempo a tutti di organizzarsi, durante la conferenza stampa di chiusura il direttore Nicola Lagioia ha già annunciato le date della 33° e della 34° edizione che sono rispettivamente dal 14 al 18 maggio nel 2020 e nel 2021 dal 13 al 17 maggio. D’altronde meglio giocare d’anticipo e prenotare un treno, un aereo o un bed and breakfast subito che attendere che i prezzi schizzino alle stelle.