Anche quest’anno, a Salone concluso, si respira la tipica malinconia da fine del Salone: l’abbiamo aspettato tutto l’anno, ci siamo tuffati nel solito turbine di eventi, e ne siamo usciti più che sazi. Anche se con un programma ridotto, in versione digitale e casalinga, e con la possibilità di vederne – o rivederne – gli eventi in differita, opportunità unica e senza dubbio tra gli aspetti positivi legati alla necessità di smaterializzare la fisicità dell’evento, la sensazione che prevale nei discorsi è sempre quella di non essere riusciti a vedere tutto quello che volevamo, tutto quello che ci eravamo segnati, tutto quello che ci incuriosiva. Siamo destinati sempre a incontrare, in questo caso digitalmente, qualcuno che ci descrive come imperdibile una discussione, uno scambio di battute, un commento, nel momento esatto in cui usciamo – anche stavolta, digitalmente – da un altro incontro. Anche nella sua prima edizione interamente online, dunque, il Salone si conferma per la sua qualità di eccedere le nostre aspettative.
E poi c’è la soddisfazione. La nostra, di lettori – ognuno ne esce con una lista di libri da divorare, quest’anno per la gioia delle nostre librerie piuttosto che di sconosciuti standisti – e quella degli organizzatori, il direttore Nicola Lagioia su tutti, che sembrano contenti dei numeri – si parla di cinque milioni di utenti connessi – ma anche della riuscita dell’esperimento in sé. Chissà che non si riesca a fare tesoro dell’esperienza e magari rendere accessibili online, per esempio, gli eventi delle prossime edizioni, favorendo la possibilità di accedere agli eventi anche a chi non riesce a raggiungere Torino, nella speranza che si torni quanto prima alla nostra normale partecipazione fisica.
Una cosa che mi ha colpito molto è di questa edizione del Salone è stato lo spazio e l’attenzione dedicati alla traduzione, ed è su questo aspetto che ho deciso di incentrare il mio contributo. Si tratta di un’arte nel nostro paese incredibilmente sottovalutata, il che è clamoroso se consideriamo che il 20% dei libri pubblicati in Italia sono tradotti da altre lingue, una percentuale importante rispetto a realtà quali quella dell’editoria di molti altri paesi. Per esempio, gli Stati Uniti traducono solo il 3% dei libri in loro catalogo. Ilide Carmignani, traduttrice dallo spagnolo di grandi nomi della letteratura (il recentemente scomparso Sepulveda, ma anche Bolaño e García Márquez) e ideatrice di uno spazio fisso chiamato “l’autore invisibile” che quest’anno ha compito vent’anni, ha specificato in diretta, a colloquio con Lagioia, che questa cifra del 20% va anche contestualizzata, perché l’80% dell’editoria italiana che resta comprende anche testi scolastici e manualistica di ogni genere.
Dunque la nostra è un’editoria più cosmopolita rispetto ad altre aree del mondo, sottolinea Lagioia, in cui tuttavia l’invisibilità del traduttore – quella che ogni traduttore si augura, lasciandosi assorbire completamente nel testo – rischia di portare il suddetto a un’invisibilità di fatto. Proprio alcuni giorni fa, frugando tra i libri in vendita nell’edicola sotto casa mia, mi capitava tra le mani una copia di Il Grande Gatsby, parte di una nuova collana di classici lanciata da uno dei maggiori quotidiani nazionali, che riproponeva la solita traduzione di Fernanda Pivano, non solo vecchia, logora e in più sensi superata, ma anche, com’è risaputo non solo dagli specialisti traduttologi, piena di errori. A partire dal 2011, in cui sono decaduti i diritti di traduzione e pubblicazione di Fitzgerald, si sono avute numerose traduzioni decisamente più attente e più aggiornate di questo importante testo, e continuare a riproporre la medesima traduzione appare se non altro ingeneroso nei confronti di quanti si sono adoperati a contribuire al dialogo di voci che vi si sono confrontate. Dunque è cruciale che il Salone si faccia carico di ribadire la cruciale professionalità del traduttore e il prestigio della scuola italiana di traduzione, in modo da incentivare il riconoscimento di una professione che viene riconosciuta a fatica. Anche da questo punto di vista, il Salone sembra aver ecceduto rispetto alle aspettative.
“La traduzione è un’arte meticcia, mischia lingue e culture, discipline: linguistica, letteratura, ma anche psicologia” ci ricorda Carmignani, introducendo il primo collegamento del sabato mattina, 16 maggio, in cui si sono concentrati in maggior parte gli incontri sulla traduzione. Carmignani stessa, insieme a Roberto Arduini, ha introdotto l’incontro con Ottavio Fatica dedicato alla sua traduzione della trilogia del Signore degli anelli di J. R. R. Tolkien, che ha originato un interessante dibattito sulla necessità di aggiornare i classici, perché se un classico certamente non invecchia, tornando anche al discorso di cui sopra, le sue traduzioni invece beneficiano molto di una costante revisione che aderisca quanto più possibile all’epoca dei lettori che vi si confrontano. Resta, quella del ritradurre un classico, una pratica che nel nostro paese è sentita ancora pochissimo dagli editori, e che invece da grande vitalità al mercato editoriale delle traduzioni in altri paesi.
Ci sono poi occasioni che personalmente ritengo davvero speciali, per un lettore, come quelle in cui è possibile vedere in dialogo un autore con il proprio traduttore, come è successo, per esempio, a Annie Ernaux con Lorenzo Flabbi, o a Ocean Vuong con Claudia Durastanti. Quest’ultimo caso mi è sembrato ancora più interessante, perché benché presente al Salone in quanto parte dell’organizzazione e traduttrice, Durastanti è in primo luogo una scrittrice, dunque una persona abituata ad avere una voce autoriale definita e identificabile, come scrittori quali Cesare Pavese, che Durastanti spesso cita come suo autore italiano preferito, o Natalia Ginzburg, a cui viene spesso accostata per il suo memoir La straniera, a sua volta in processo di traduzione in diverse lingue, in primis quella inglese per l’imminente edizione americana. Ho incontrato Durastanti in veste di traduttrice, per la prima volta, qualche mese fa, a Milano, in cui prestava la sua voce a uno dei più interessanti autori americani viventi, Joshua Cohen, in questo caso anche in qualità di interprete. In questi casi, il traduttore diventa allora anche un attore, che interpreta la persona dell’autore che scrive sulla pagina; nel caso di Vuong, invece, il sottotitolo ha sopperito alla necessità di tradurre le risposte dell’autore in tempo reale, senza tuttavia che l’incontro ne abbia perso in termini di intensità, né relativamente alla possibilità di produrre notevoli spunti di riflessione e discussione.
Non meno dell’incontro con Cohen, anche l’incontro tra Durastanti e Vuong ha dato occasione a un duetto meraviglioso in cui si discute di letteratura e letterature tra due voci che ne sono rappresentative, decisamente al di là dei limiti di una ordinaria presentazione di un libro in uscita. Analogamente, ho trovato estremamente stimolante, dal punto di vista traduttologico, il duetto tra Durastanti e Jumpa Lahiri che è stato allestito in occasione del festival digitale “Piazza della Enciclopedia” organizzato da Treccani. Due traduttrici che sono anche autrici, che condividono l’omologo background da sradicati che è associato allo statuto errante dello scrittore in migrazione, si ritrovano a sorpresa a parlare delle edizioni in inglese del Mestiere di vivere di Pavese. Se Durastanti condivide con Lahiri la migrazione tra Inghilterra e Stati Uniti, anche se inversa, vissuta attraverso l’origine italiana, nel caso di Durastanti, e quella bengalese nel caso di Lahiri, un background analogo diventa anche la piattaforma comune del dialogo tra Durastanti e Vuong, e quindi tra un’italoamericana e un asiatico-americano. Questo aspetto torna subito all’attenzione nel momento in cui Durastanti ricorda a Vuong che nel suo romanzo autobiografico, Brevemente risplendiamo sulla terra, ha citato il classico della letteratura italoamericana Cristo tra i muratori di Pietro Di Donato, mentre lui nell’intervista online confessa che il suo romanzo non solo è stato concepito durante una residenza di scrittore in Italia, ma che tra le fonti di ispirazione principali del suo libro ci sono Caro Michele di Natalia Ginzburg e Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, entrambi ovviamente letti nella loro traduzione inglese. Vuong li affianca a Moby Dick e alla crew multiculturale del Pequod, che ha ispirato la rappresentazione multietnica degli ambienti lavorativi che ritroviamo nei più grandi romanzi americani, incluso Cristo tra i muratori.
A proposito della lingua di Vuong, Durastanti ci ricorda di Lessico Famigliare di Ginzburg, piuttosto che Caro Michele, sottolineando le modalità con cui Vuong descrive lo sdoppiamento tipico del mondo linguistico che avviene in una casa di migranti, con il personaggio autobiografico di Little Dog che si oppone alla madre e nonna per la sua abilità di parlare inglese, quando è fuori casa, mentre la loro casa diventa il dominio della lingua d’origine, quella vietnamita, e il luogo dei racconti di famiglia legati ai ricordi di guerra, alla difficile vita a Saigon, all’unione tra sua nonna e un soldato americano da cui ha avuto origine sua madre, destinataria del libro, un libro che non sarà mai capace di leggere. Un’altra delle abilità del traduttore – o meglio, della traduttrice – che Vuong stesso ha messo in evidenza riferendosi a Durastanti, è stata quella di riuscire a restituire il delicato equilibrio della scrittura dell’autore, sospesa tra prosa e poesia e ispirata da un ritorno a una tradizione celebre in cui i due generi erano tutt’altro che separati e convivevano meravigliosamente. Vuong menziona non solo Omero o Gilgamesh, ma anche Dante, a testimonianza della crucialità di poter disporre di traduzioni in inglese dei nostri classici, così come per noi e per molti scrittori del nostro paese gli autori sono entrati in circolo, spesso a far parte delle loro opere, grazie alla presenza di loro traduzioni in italiano, a disposizione di chi non abbia accesso alla lingua originale.
Come ospite centrale dello spazio dedicato allo “scrittore invisibile” appare un’altra celebre scrittrice-traduttrice, in questo caso nei panni di traduttrice dal tedesco, e nello specifico, di Christa Wolf: Anita Raja. Il suo intervento, intitolato alla traduzione come pratica dell’accoglienza, è di suo un saggio perfetto per chiunque si appresti a studiare traduzione. Con il suo tono pacato e meticoloso, Raja ha confessato di essere più o meno una traduttrice per piacere, più che di professione, cosa che le ha sempre permesso di scegliere i testi che davvero le interessava tradurre, e in cui ha individuato un suo coinvolgimento personale. Ciò nonostante, il suo nome si è legato indissolubilmente a quello della circolazione di Wolf in Italia sin dagli anni Ottanta, con la pubblicazione di Cassandra. Il discorso conferma dunque che, per Raja, Wolf è stata una fonte di ispirazione e coinvolgimento personali, piuttosto che un lavoro su commissione, al punto da scegliere di tradurre anche Ingeborg Bachmann solo perché i suoi testi erano citati da Wolf. Come Durastanti, anche Raja ha confessato che uno dei momenti più importanti nella sua carriera di traduttrice di Wolf è stato quando ha potuto incontrare l’autrice e stabilire con lei un rapporto ricorrente negli anni, di cui la qualità delle sue traduzioni ha beneficiato: un rapporto tra due testi diventa dunque un rapporto tra due persone. Ciò non ha comportato l’eliminazione della grande disparità che vige tra traduttore e autore. Infatti, Raja ha chiuso il suo intervento con una nota di grande umiltà, sottolineando che chi traduce è sempre in una posizione di servizio, e che la qualità principale del traduttore è la devozione che si accompagna al desiderio di essere all’altezza dell’originale. L’opera di riscrittura del traduttore dunque ha la prerogativa dell’ospitalità e l’obbligo di inventare spazio linguistico adeguato al testo che è tradotto.
Un momento molto importante del discorso di Raja ha affrontato un altro problema spesso sottovalutato della lingua, che riguarda i suoi limiti in relazione alla lingua che stiamo traducendo. Su tutti, Raja ha evidenziato i limiti del sessismo insito nella lingua italiana nel momento in cui approccia una scrittrice complessa come Wolf, in particolare portando all’attenzione il pericolosissimo uso neutro e universalizzante del maschile. Su questa nota in particolare mi sembra che le esperienze di traduttrici di Raja e Durastanti si incontri perfettamente, se si considera che Durastanti ha tradotto numerosi testi di letteratura femminista, su tutti il recente Chthulucene: Sopravvivere su un pianeta infetto di Donna Haraway per Edizioni Nero. Il libro è stato presentato la sera di giovedì 15, uno degli eventi principali di questo Salone, e che probabilmente rimarrà come uno dei momenti più alti della sua storia. Haraway ha dialogato con Durastanti e Loredana Lipperini, partendo dalla lettura del testo per poi soffermarsi su tutti gli sviluppi possibili della riflessione sulla disparità di genere nel contesto di questa pandemia, considerata nel presente, nel passato, ma soprattutto ipotizzando l’evoluzione che potrà avere nel futuro, un tema da sempre caro ad Haraway.
Anche questo ultimo aspetto in realtà si traduce in una delle maggiori perplessità insite nella pratica della traduzione, e con cui il traduttore si confronta in partenza: l’impossibilità di contenere tutte le traduzioni dell’originale. La tensione utopica del testo tradotto si sovrappone dunque alla tensione utopica di un femminismo che non sia confinato dalle barriere linguistiche, e al desiderio che proprio la traduzione, in quanto processo in divenire, espresso dal flusso delle infinite traduzioni, possa contribuire ad aggirare il sessismo insito ancora oggi nell’uso comune del nostro linguaggio. La traduzione come alleata più solida di un processo di emancipazione femminile che si performa come un movimento di approssimazione che è il prodotto degli infiniti femminismi che si sono succeduti nella storia. Come il Salone, anche l’utopia della traduzione sembra dunque destinata a risolversi in un’entità che eccede sempre le proprie aspettative.