Rosso antico è il colore di una nostalgia

Basta un anonimo sabato mattina, uno dei più freddi dell’anno, per fare i conti con una realtà che da tempo tormenta Luca Salomè. Professore universitario, figlio di una generazione in perenne rivolta. Quella delle occupazioni, delle manifestazioni in piazza, dell’impegno civile. Una generazione, un mito. Dietro i dubbi che attanagliano la coscienza del professore, sedato da una senilità più psicologica che fisica, si cela una dura e irrevocabile resa dei conti. Da un lato il tentativo di interrompere il festeggiamento ostinato del Sessantotto, dall’altro la coscienza di essere stato parte di quel movimento e di aver fallito come generazione. Cinquant’anni dopo, è giunto il tempo dei bilanci. Rosso antico è il colore della passione sbiadita, degli ideali che appartengono al passato. Il fallimento intellettuale di Luca Salomè, sottolineato dall’incapacità di scrivere, di tentare nuove forme di espressione creativa, è un’amara constatazione che sorge all’affermarsi di un nuovo fermento giovanile.

Rosso antico” (Perrone, 2021) rappresenta l’esordio nel campo della narrativa per Simone Nebbia, già affermato come cantautore e critico teatrale. Animatore del quotidiano Teatro e Critica, suoi articoli sono apparsi su la Repubblica. Ha collaborato con il programma Terza pagina di Rai Scuola. Nel 2013 ha partecipato alla pubblicazione di “Declino del teatro di regia” (Editoria & Spettacolo).

 

Lei da anni ormai si muove nel campo della cultura, musica, teatro e non solo. Ma da dove nasce l’esigenza di esprimere un’idea precisa di impegno politico nella forma romanzo? In che periodo nasce e si sviluppa la trama di “Rosso antico”?

Sono un esordiente, ma in realtà non è il primo romanzo che scrivo. Le mie prove di scrittura precedenti non mi convincevano, la materia di “Rosso Antico” invece aveva qualcosa che mi sembrava fosse da dire a tutti. Il nucleo di origine risale all’estate del 2008, quando ero uno studente universitario alla fine del mio percorso e stavo scrivendo la tesi su Paolo Volponi. Venivo da un contesto universitario deludente, avevo perso le speranze di costruire rapporti con l’ambiente accademico. La generazione dei professori che andava in pensione era quella che aveva fatto il ’68 e quegli stessi docenti, di cui avevo sentito parlare come delle grandi menti, erano assuefatti, addormentati. Peraltro nel 2008 si stava lavorando alla riforma Gelmini e questi ex Sessantottini continuavano a occupare le cattedre, avallando di fatto, in silenzio, la peggiore riforma della storia universitaria.

L’idea di scrivere questa storia nasce da un evento casuale. In vacanza in Grecia, sull’isola di Lefkada, una meta poco conosciuta sulla costa ionica. Lì c’è una spiaggetta a cui si arriva dopo aver scalato una montagna. Anch’io lo feci, superai la montagna e trovai altre persone nell’insenatura. A un tratto, uno yacht che arrivava dal mare largo buttò giù le sue scialuppe per raggiungere quella riva nascosta, agitando e inquinando le acque cristalline con il cherosene. Questo, un’immagine immediatamente metaforizzata, mi ha fatto capire tante cose. Una parte del mondo esercita il potere con l’idea della sopraffazione. Il peggior capitalismo. Quella situazione è stata il motore per scrivere un romanzo.

In ottobre tornai all’università e scoppiò L’Onda, la rivolta contro proprio il disegno di legge Gelmini. Non si è conservato molto di quel movimento studentesco, non è stato testimoniato adeguatamente. Eppure tutte le principali università italiane furono occupate. Io, vivendo il movimento da dentro e da fuori allo stesso tempo, osservavo ciò che accadeva con grande emozione, a tal punto da iniziare a raccontarlo; iniziai a scrivere un diario, mi sembrava la forma più efficace, conferiva dignità al movimento, alla voglia di manifestare. Le pagine si riempivano da una mia osservazione laterale del movimento. Così è nato “Rosso Antico”.

“Vogliamo tutto. E lo vogliamo adesso. Ma vogliamo tutto o tutto quel che resta?”. In quest’espressione è condensata l’essenza del Suo romanzo. La citazione di Balestrini è rovesciata a favore di una dichiarazione di sconfitta di quella generazione, che non ha mantenuto le promesse iniziali. Cosa resiste ancora oggi di quel ’68? Si può rintracciare un atto di redenzione in grado di scarcerare quella generazione, pilastro del Novecento?

Il movimento del ‘68 è stato importante non tanto per aver prodotto il cambiamento in corso d’opera, ma per aver seminato l’idea di un cambiamento nella società da venire. Quella generazione lì ha raccolto un segno potente di ribellione contro una sorta di Ancien Régime, ha così sconfitto la figura patriarcale in favore di una società plurale, di un meccanismo dei molti. Quella generazione poi è cresciuta. E si è verificato un disastro: quei ragazzi che rifiutavano i padri, se ne hanno rifiutato la figura, come potevano essere padri per chi veniva dopo? Il rifiuto così si estenua, l’età anagrafica non corrisponde più per nessuno alle età della vita, tutto è esploso: al posto dei padri si formano dei “post-ragazzi”, eterni giovani, incapaci di diventare dei modelli per le generazioni successive. A noi è così venuta meno la figura da destituire, il dittatore da spodestare. E non abbiamo edificato.

Più che parlare di redenzione, io forse cercherei di fermare quel festeggiamento ostinato e un po’ retorico sul ‘68, quella sorta di talk-show continuo che celebra senza lasciare modelli stabili efficaci. Forse ridurne il racconto, lo storytelling, è il punto da cui ripartire.

Quel “rosso antico” torna ad assumere una tonalità vivace grazie alla nuova generazione, rappresentata dal nome del giovane Giovanni Praga. I giovani conservano un margine di libertà, di spazio per dire la propria, ma se lo tengono stretto. Crede davvero nel riscatto di questa generazione così lontana dalla piazza?

Mi fido sempre della generazione che vede il mondo davanti a sé. Per esempio, la nuova leva della protesta, è stata capace di internazionalizzare la manifestazione e veicolare quel senso di comunità su un tema come l’ambiente che è sentito in ogni parte del mondo. Ma occorre avere, oltre che fiducia, il coraggio di spostare l’asticella sempre un po’ più in là: io sono anche un insegnante e cerco per esempio di spiegare ai giovani anche un tema difficile come la politica, perché capiscano che non è una cosa lontana, che quei palazzi, quel mondo che i giovani percepiscono come ostile, in realtà riguarda loro. Riguarda tutti. La politica è partecipazione, è – volendo ripetere certe conquiste di un illuminismo che oggi farebbe comodo – connaturata all’essere al mondo.

Il ruolo della didattica a distanza, da un lato, salva una generazione lontana dalla scuola, dall’altra penalizza e fa perdere di vista il ruolo che la classe studentesca deve assumere nella società, ciò che ha sempre rappresentato. La pandemia non ha fatto altro che portare a termine un processo di dissociazione dall’impegno sociale e politico iniziato da anni, eppure Lei nutre una grande fiducia nella nuova generazione. Stiamo andando nella direzione giusta?

La pandemia non ha aiutato, certo, ma il problema esisteva già da prima, perché l’allontanamento dalla piazza è un fenomeno che va avanti da tempo. La spinta forte che ha animato generazioni, quella di occupare i luoghi per garantirsi spazi di socialità e pratica politica, trasmissione delle idee e delle esperienze, si è arenata quando gli spazi sociali sono stati via via desertificati e annientati da sgomberi e lotte burocratiche. E dunque i ragazzi, sfruttando anche l’ampia offerta che la condivisione via web permette, si sono rintanati fino alla propria camera da letto. Tuttavia la pandemia, pur avendo contribuito ad allontanarci, estremizzando l’impossibilità dei rapporti tangibili potrebbe paradossalmente essere un motore per riscoprire proprio quella necessità collettiva. È successo già per i ragazzi coinvolti nella DAD che, intervistati, hanno spesso espresso come l’importanza della scuola forse l’hanno capita ora più che mai. Ecco che anche da un evento così traumatico come il Coronavirus si potrebbero cogliere effetti positivi.

Dietro il fallimento di una generazione, sembra emergere una crisi generale di valori. Musica e letteratura sembrano tutti strumenti inefficaci. “I versi fanno rumore solo se non ce ne sono altri a dissonare”. Da tempo si parla di una poesia sempre più distante, incapace di raccontare il mondo rapido, velocissimo, in cui viviamo, e quindi indegnamente sostituita da altre forme espressive. Qual è l’alternativa a questa desolazione culturale?

L’alternativa l’ho trovata nella scrittura, perché è davvero un motore inesauribile di cambiamento, quindi una sorta di lievito per il pensiero, per la coscienza politica. Cerco di far capire anche ai miei studenti che il mondo è loro e devono combattere per mantenere ciò che gli spetta di diritto, quindi dovranno recuperare la forza della politica all’interno di una comunità. Il più grande investimento che un Paese può fare è sul linguaggio, sulla letteratura. La desolazione culturale che si deduce da questa citazione è tratta dalla conversazione tra due uomini del passato. Salomè è, prima di tutto, un uomo del passato. Lo studente giunge a tutt’altra conclusione e dirà, nel suo diario, che “un uomo è libero se può usare con libertà il proprio linguaggio”.

Sempre nel diario c’è un episodio che mi torna in mente, a proposito di investimento sulla scrittura, sulla letteratura come più alta forma estetica, per dirla con Iosif Brodskij. Proprio durante il movimento del 2008, in assemblea, dopo essere stati nel mezzo di scontri di piazza si decise di creare dei libri di gommapiuma per la successiva manifestazione, i Book Block, così da difenderci. Alle manganellate dei poliziotti noi rispondevamo con Proust, Joyce. Rispondere con la letteratura, con l’estetica, era importante anche per il suo carattere di sorpresa, portava una rivendicazione culturale nel contesto meno adatto.

Cosa ha in serbo il futuro per Lei?

So che scriverò ancora, non so se pubblicherò. Aspetto che una storia, di nuovo, sappia esprimere l’urgenza non del tutto mia, non del tutto di altri. Ma che io sappia interpretare proprio per tutti quegli altri.

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