Letteratura e letteratura per l’infanzia. Modi di fare narrativa diversi, e alle volte diversissimi, ma pur sempre, nelle loro differenze e per le loro differenze, importanti, e alle volte importantissimi. Secondo gli ultimi dati ISTAT, il 48% dei bambini compresi tra i sei e i quattordici anni legge almeno un libro l’anno. Un dato di cui tenere conto, in un paese che non legge. I ragazzini, a quel che pare, trainano il mercato librario alzando nettamente la media dei lettori – che tra gli adulti si aggira attorno a un misero 40% –. Bene, anzi benissimo. Un bimbo che legge è un adulto che pensa, ha detto qualcuno una volta. E Dio solo sa quanto abbiamo bisogno di adulti pensanti, oggi. Ecco perché la narrativa per l’infanzia dovrebbe avere un ruolo di gran lunga più importante di quello che in effetti ha. Ed ecco perché quando due grandi donne, scrittrici formidabili, intellettuali interessantissime, si dedicano alla letteratura per l’infanzia, la notizia non può passare in sordina.
Parlo di Rosella Postorino e Nadia Terranova. Autrici che negli ultimi anni con i propri romanzi – in particolar modo con Le assaggiatrici, Feltrinelli, la prima e con Addio fantasmi, Einaudi, la seconda – si sono imposte sulla scena letteraria internazionale. Rosella ha appena pubblicato con Salani Tutti giù per aria, il suo primo libro per bambini. Nadia, che alla narrativa per l’infanzia si era già dedicata, è recentemente tornata in libreria con Omero è stato qui, Bompiani. Chi, dunque, meglio di loro potrebbe aiutarci a capire qual è l’intreccio tra la letteratura e la letteratura per ragazzi? Mondi che di primo acchito parrebbero tanto lontani tra loro, con poco o niente a che fare, ma che in realtà hanno invece parecchi punti in comune.
Rosella, è la prima volta che ti dedichi alla narrativa per l’infanzia, da cosa nasce la spinta alla realizzazione di un libro del genere nel mezzo di una carriera da scrittrice già ben avviata e tanto celebrata?
Volevo scrivere questo libro da tanto, l’idea è nata addirittura più di dieci anni fa: nel quaderno di appunti del mio secondo romanzo ci sono le prime tracce di Tutti giù per aria. Ero in aereo, disegnavo, come spesso faccio in viaggio, e la prima a prendere forma fu Gianna Baloon. Poi, pian piano, sono comparsi anche gli altri personaggi, ma solo quando mi sono messa a raccontarli li ho visti esistere davvero. Per tutto questo tempo non mi ero concessa di scrivere un libro per bambini, come se farlo fosse un lusso o un premio. Dopo l’avventura di Le assaggiatrici, intendo i quattro anni di ideazione e di scrittura e i quasi due di promozione in Italia e all’estero, questa piccola storia a lieto fine – in cui una bambina spaventata dal giudizio degli altri finisce per caso (anzi, per errore) nel paese degli Scarti, dove chiunque ha dei difetti assurdi, ma nessuno li percepisce come tali perché sono messi al servizio degli altri e diventano dunque utili alla comunità – è stata la mia boccata d’aria. Ma soprattutto è stata il modo in cui ho potuto risentire l’euforia e l’incoscienza delle prime volte.
Nadia, tu invece hai dedicato alla produzione di libri per l’infanzia buona parte della tua carriera. Letterariamente e personalmente, quale delle due è arrivata prima: la narrativa per i più piccoli o i romanzi?
Ho cominciato scrivendo racconti che sono stati pubblicati in antologie collettive e riviste e ho poi cominciato a lavorare a quello che sarebbe poi diventato il mio primo romanzo, Gli anni al contrario, che sarebbe uscito nel 2015 per Einaudi Stile Libero. Il romanzo era già finito, ma non ancora pubblicato, quando ho scritto i miei primi libri per ragazzi, compreso Bruno il bambino che imparò a volare, uscito nel 2012 per Orecchio Acerbo, dedicato alla vita di Bruno Schulz. Questo sfalsamento editoriale ha fatto sì che si ingenerasse l’equivoco che io avessi cominciato dalla narrativa per ragazzi, in realtà è arrivata poco dopo, comunque per me vanno di pari passo.
I rispettivi nuclei di questa dualità narrativa, da una parte quella per adulti e dall’altra quella per bambini, sono in qualche modo intrecciati o vivono vite parallele? Rosella?
Non credo che vivano vite parallele. Le paure di Tina, il suo senso di “diversità”, il suo bisogno di essere accettata, riguardano anche molte protagoniste dei miei romanzi per adulti. Così come l’ossessione del corpo, il rapporto tra individuo e società, e il fatto che bisogna spostarsi – fisicamente e metaforicamente, cioè cambiare prospettiva – per scoprire qualcosa di nuovo, sugli altri e su sé stessi. Gli altri sono sempre rivelatori per noi, nel bene e nel male.
È così anche per te, Nadia?
Ogni libro nasce con la sua destinazione, però parole e argomenti si intrecciano e si sovrappongono e si confondono: impossibile tirare una linea fra padri, scomparse, formazione, crescita… tutto ciò a cui penso finisce ovunque, senza confini.
Nella vostra idea di narrativa per l’infanzia, quale credete che debba essere il confine tra la finzione, o, per meglio definirla, l’immaginazione, e la realtà? Pensate che l’intrattenimento debba avere un ruolo preminente o che piuttosto la trattazione di nodi attuali, che affondano le proprie radici nella realtà, sia altrettanto o più importante?
Rosella:
Non ho teorie sulla narrazione per l’infanzia, e soprattutto non credo abbia senso dire «la letteratura deve / non deve fare». E non capisco tanto bene la dicotomia: l’intrattenimento non è opposto alla realtà, né lo è l’immaginazione. La letteratura è menzogna, è invenzione. Deve porsi il problema di essere bella. Di indagare una condizione umana attraverso una storia che possa essere il più possibile interessante. Prendi il film Marriage Story, per me il migliore del 2019. È scritto meravigliosamente, riesce a restituire la complessità di un legame e di una separazione con un’altissima dose di intrattenimento: lo spettatore è totalmente immerso, si commuove, ride, è spiazzato, si arrabbia, si sente impotente, si intenerisce, è infelice, è appagato.
Nadia:
Non vedo alterità radicali fra queste opposizioni: parlare di sé significa parlare del mondo e viceversa, non si può parlare di attualità senza memoria e non c’è memoria che non sia anche immaginazione, ricordare e immaginare prevedono lo stesso movimento. Mi piacciono i romanzi realistici con scene che all’improvviso ti aprono uno scenario fantastico e i romanzi fantastici dai racconti così veri che sembra di poterli toccare.
Quali sono gli autori per l’infanzia che vi hanno influenzato maggiormente? Ne hai uno in particolare, Rosella?
Sicuramente Gianni Rodari, non a caso nel libro ci sono tre filastrocche, poi Alice nel paese delle meraviglie. Pinocchio è sicuramente uno dei miei romanzi del cuore. Compro molti libri illustrati, i cui destinatari sono teoricamente i bambini, per esempio mi è piaciuto tanto Il diario segreto di Pollicino di Philippe Lechermeier, illustrato dalla geniale Rébecca Dautremer.
Tu, Nadia?
Ho letto un numero infinito di volte Le streghe di Roald Dhal, Speciale Violante e Principessa Laurentina di Bianca Pitzorno, Violetta la timida di Giana Anguissola, Professione? Spia! di Louise Fitzhough, e Il giardino di mezzanotte di Philippa Pearce. Ho amato i classici d’avventura, soprattutto Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni, e quelli umoristici come i racconti e i romanzi di Mark Twain. So di aver preso qualcosa da tutti loro ma mi affascina di più il modo in cui si sono sedimentati in un modo magico e misterioso anche a me stessa.
Rosella, Tina è una bimba che tiene molto alla perfezione, a far tutto bene, a non sbagliare mai. È uno dei nodi tematici del tuo racconto, il concedersi di sbagliare? L’evitare questa continua ricerca di un’inesistente perfezione a cui parremmo tutti essere quasi obbligati?
Tina teme di sbagliare perché teme il giudizio, l’esclusione, la vergogna e il senso di colpa, come tutti. In fondo, la sua ricerca di perfezione non è che una ricerca d’amore. Non è tanto il fatto che ci si possa concedere di sbagliare, anche se è impossibile evitarlo, è che è troppo faticoso vivere credendo che il nostro diritto di essere amati sia direttamente proporzionale alle nostre performance, al nostro successo sociale, alla nostra bravura. Siccome è difficile capirlo anche per me, ho scritto una storia per convincere innanzitutto me stessa.
La piccola protagonista del tuo romanzo, dopo qualche peripezia, finisce in un paese strambo, popolato da personaggi diversi tra loro. L’accettazione di chi non è come noi, sia per le proprie idee o ideologie, sia per i propri tratti fisici, è un argomento di cui nel quotidiano si sente molto parlare, e nella maggior parte dei casi tristemente. La meraviglia dell’incontro, dell’incontro tra persone tra loro differenti, nel tuo libro è centrale e trovo che sia un argomento molto attuale. È qui che il mondo della realtà fa incursione in quello della fantasia?
Sempre, e viceversa. Nel paese degli Scarti quelli che noi considereremmo dei limiti, dei difetti, delle condizioni invalidanti sono semplicemente delle caratteristiche, che pertengono all’unicità di ciascuno. Ogni caratteristica può essere valorizzata, e al paese degli Scarti lo sanno: così, un ragazzo che soffre di flatulenza inguaribile può diventare un ammirato chauffeur, una donna con le orecchie a parabola può captare la voce delle stelle, un’altra con un sedere enorme può volare, come una mongolfiera. È un elogio della diversità: Tina si sente straniera nel suo paese mentre al paese degli Scarti acquista una specie di cittadinanza, perché viene accolta, accettata per ciò che è.Nessuno le chiede di omologarsi né di tradire la propria identità. Nessuno lo chiede a nessuno, in quel paese. Tina partecipa alla caccia al tesoro senza che siano state fatte prima le squadre. Il gioco è cercare, tutti insieme, in modo anche incasinato e imperfetto, quel filo che non rappresenta altro che la fragilità della vita stessa.
Nadia, tu invece hai scelto di raccontare alcuni tra i miti di Sicilia più celebri. Perché sei tornata tanto indietro per avvicinarti ai bambini? Per la bellezza intrinseca dei racconti o perché credi che ciò che avevano da insegnare possa raggiungere anche la generazione dei più piccoli? Voglio dire, c’è dell’attualità nel mito? E tra questi, qual è quello che preferisci?
I miti fanno ridere e riflettere, sono apocalittici e serissimi, c’è tutto quello che ci serve lì dentro. Colapesce è la storia che mia nonna mi raccontava da piccola, in fondo anche il mio ultimo romanzo, Addio fantasmi è una riscrittura di quel mito: un uomo che sparisce in acqua, abbandona la sua famiglia e in un modo oscuro, protettivo e inquietante insieme, sorregge l’isola e le persone che ha amato.
Colapesce e la sua storia ci raccontano l’importanza del sacrificio, pensi sia un valore, se così possiamo chiamarlo, presente nel contemporaneo o credi che stia andando scomparendo in funzione di un egoismo che molti definiscono addirittura galoppante?
Non mi piace la mistica del sacrificio fine a sé stesso. Mi commuovono invece la generosità, la gratuità invisibile, mi piacciono le persone che non si mettono in posa e danno agli altri riuscendo a conservare, quando e quanto possibile, la propria integrità.
Come avete modificato la vostra lingua affinché aderisse ai toni di un bimbo? È stata un’operazione complessa?
Rosella:
In realtà no. Intendo dire che, nel momento in cui mi sono messa a scrivere, il libro è venuto giù come un flusso. Ci sono parole che automaticamente escludi perché immagini possano essere difficili, ma non bisogna nemmeno semplificare troppo. In fondo, da piccola io leggevo anche per imparare termini nuovi, era proprio una gioia per me: se riprendo in mano i romanzi che leggevo dabambina o da ragazza, spesso mi capita di trovare sul frontespizio elenchi di parole a matita. Erano le parole che non conoscevo e che cercavo sul dizionario, e che ero felice di aver appreso. Per esempio ho proprio memoria di una pagina su cui, con la mia scrittura allora piuttosto tonda, ho annotato i vocaboli: «virgulto» e «protervia» (ma non saprei dirti quale fosse il romanzo). Quel che mi pare essenziale in una storia per ragazzi è la sintesi. Riuscire a rendere conto di una situazione o di un carattere nel modo più incisivo e meno prolisso possibile, e soprattutto nel più iconico. Maquesto mi pare possa essere utile anche nei romanzi per adulti.
Nadia:
No, scrivo in un modo spontaneo, i bambini sono intelligentissimi e richiedono una lingua alta.
Scriverete ancora per i più piccoli? Rosella, qualche progetto in cantiere?
Si hanno sempre progetti in cantiere, nel senso che vivere senza immaginare di scrivere qualcosa è impossibile. Da qui a farlo davvero, però, ne passa. Ricordo che Calvino diceva, o qualcuno lo diceva di lui, che di solito ritardava il più possibile il momento in cui si sarebbe messo a scrivere. Per me la fase di incubazione – almeno per quanto riguarda i romanzi per adulti – è piuttosto lunga e anche un po’ tormentata, come se accadesse nonostante la mia stessa riluttanza, le mie paure, il senso di fatica che un nuovo progetto implica, e soprattutto la sensazione di non capire nulla, nulla. Quindi il periodo di incubazione non implica il fare le scalette o l’avere tutta la storia in testa prima di scriverla, anzi! Significa stare lì con quelle idee, con quei personaggi, senza conoscerli, valutando anche di poterli ignorare, facendo quasi resistenza finché a un certo punto non è più possibile resistere. Anche l’incubazione del mio libro per ragazzi è stata lunga, ma non è stata tormentata. È come se il libro fosse cresciuto dentro di me finché, un giorno, non ho provato a scriverlo e a quel punto l’ho fatto tutto d’un fiato. Mi piacerebbe scrivere ancora per i ragazzi, sì, concedermelo di nuovo. È molto divertente, e anche liberatorio.
Nadia, tu stai lavorando a qualcosa?
Certamente. Quest’anno ci sarà una sorpresa. Forse due. Ma è ancora presto per parlarne.