A ben analizzarle, fiabe e favole svelano del carattere e della mentalità di una nazione più di quanto si possa sospettare. Prendiamo ad esempio un topos fiabesco per eccellenza come il lupo. In Italia, il povero Pierino, già di per sé macchietta destinata a essere derisa in una ridda enciclopedica di barzellette di quart’ordine, a furia di gridare “Al lupo! Al lupo!” finisce per non essere più creduto da nessuno e diventa inevitabile pasto dell’animale. Il tutto evidenzia implicitamente il carattere sospettoso, egoistico e alla lunga menefreghistico dell’italiano medio, che predilige un Pierino in meno a un fastidio in più. Nella rigida e rigorosa Germania, invece, l’avvistamento di un lupo al largo di Berlino dà vita alla favola minimale/esistenziale di Roland Schimmelpfennig, In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo.
Il romanzo d’esordio di uno dei più noti e stimati drammaturghi tedeschi segue, per il lasso di tempo di una manciata di giorni, le vicende di sparuti personaggi: due ragazzi che dal loro villaggetto ai confini con la Polonia scappano a Berlino, i loro problematici genitori che, già alle prese con i propri ingombranti problemi, tentano di rintracciarli e due immigrati polacchi, lei donna delle pulizie lui camionista/muratore, che si arrabattano sopravvivere nella e alla grande città. È proprio il camionista polacco, inchiodato in una coda paurosa a decine di chilometri dalla capitale tedesca, ad avvistare per primo il lupo e a immortalarlo in fotografia. Questa immagine, diffusa e ripresa sui media, darà avvio alla “febbre del lupo” che per alcuni giorni contagerà tutta Berlino.
Il lupo si rivela ben presto come un mero pretesto scenico. Il suo passaggio, reale o presunto, in questo o quel quartiere di Berlino è come un occhio di bue che a teatro illumina questo o quell’angolo del palcoscenico. I personaggi che si muovono su questa scena sono spinti da una forza invisibile, rappresentata non dal capriccio creativo dello scrittore bensì dal labirintico vortice creato dalla società capitalistica, in particolare nelle zone di Berlino est, dove Coca-Cola e S-Bahn sono le nuove, precarie istituzioni che hanno sostituito la DDR. L’autore non ha altra ambizione che essere narratore, seguire le vicende dei personaggi per la stessa durata del passaggio in città del lupo. Non appena l’animale scompare, misteriosamente com’era apparso, anche i protagonisti fuoriescono dalla scena, lasciando la loro vicenda specifica sospesa e inconclusa.
La provenienza teatrale di Schimmelpfennig è manifesta nella sua scrittura: spoglia, cruda, minimale, che antepone l’azione e il movimento a qualsiasi concessione descrittiva. Ma la scelta di questa scrittura non deriva soltanto dal curriculum dell’autore. Lo scritto si adegua alla trama, alla narrazione di una vicenda anch’essa minimale, limata all’osso dell’essenziale, tutta tesa a rivelare il vero focus dell’intera opera: l’isolamento e l’alienazione che gli individui provano nelle grandi città. Ne è un’ulteriore dimostrazione il fatto che i personaggi, tranne rare eccezioni, non sono mai nominati per nome, ma semplicemente indicati come “la ragazza”, “il padre del ragazzo”, a sottolineare un anonimato che è, in realtà, generalizzazione dell’umanità in senso ampio.
In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo è un libro decisamente particolare, destinato a dividere i lettori tra chi griderà al capolavoro e chi invece, con espressione corrucciata, lo confinerà nell’angolino buio e basso della libreria. Ciò che è indiscutibile, è che è un libro profondamente, autenticamente tedesco, come da anni non se ne leggevano. La Germania nazionalmente riunita ma ancora mentalmente divisa, con la sua complicata e multietnica immigrazione, con le sue macerie in perenne ricostruzione, con il suo cielo basso e plumbeo traspaiono con una forza poderosa da ogni singola riga di questo romanzo. Personalmente, questo aspetto è emerso maggiormente anche dal confronto con un’altra lettura recente, di cui abbiamo parlato sempre su L’Indiependente, ossia Middle England di Jonathan Coe. Se nell’opera dell’inglese la sovrabbondanza di particolari finiva per soffocare il testo in una posticcia artificiosità, nella creazione di Schimmelpfennig il minimalismo imperante finisce invece per configurarsi come uno splendido mandala: un tracciato semplice in bianco e nero, aperto però per essere riempito con tutti i colori che la fantasia del lettore può aggiungervi.