Sono in Avenida Paseo Colón, nel barrio San Telmo di Buenos Aires, e attendo che Guido termini una lezione da lui tenuta alla FIUBA, la Facultad de Ingeniería. La struttura spezzata dell’edificio mi sovrasta, un’aria mite attraversa la Costanera, si sfila da Puerto Madero. Quando il mio amico spunta dallo scheletro della facoltà mastica una frase che gli scivola via dalla bocca: Facciamo due passi – interviene – Seguiamo il perimetro della FIUBA, ti mostro una storia.
È il 1956 e la Revolución Libertadora della dittatura civico-militare di Lonardi e Aramburu ha rovesciato un anno prima il peronismo e soppresso le insurrezioni della resistenza. Rodolfo Walsh vive a La Plata, già insignito del Premio Municipal de Literatura per l’opera Diez cuentos policiales argentinos, ma non ancora ritenuto pioniere del nuevo periodismo. Frequenta assiduamente il club degli scacchi. Traduce letteratura statunitense, acconcia bozze, ravvia quello che sarà un nuovo ciclo di polizieschi.
Un bel giorno, nel dicembre dello stesso anno – il medesimo della controrivoluzione fallita del generale Valle e del generale Tanco -, in un caffè di La Plata un uomo gli si avvicina e mormora: “C’è un fucilato ancora vivo”.
Nel prologo della sua Operación Masacre, primo esemplare del genere non-fiction, Rodolfo Walsh avrebbe affermato: “Non so cosa sia ad attrarmi in questa storia vaga, lontana, irta di improbabilità. Non so perché chiedo di parlare con quell’uomo, perché sto parlando con Juan Carlos Livraga. Ma poi lo scopro. Guardo quella faccia, il buco nella guancia, il buco più grande nella gola, la bocca spaccata e gli occhi opachi in cui galleggia ancora un’ombra di morte. E mi sento insultato”.
Hay un fusilado que vive è il detonatore di una storia crudele e inverosimile. Una storia grondante di sangue, acquiescenza cameratesca, disperazione. È il principio di una tortuosa indagine che spoglia il giornalista della sua vita, lo costringe ad entrare in clandestinità, cambiare nome in Francisco Freyre, trasferirsi in una baracca sul delta del Paraná, girare costantemente armato.
Il volto deturpato, cui fanno riferimento le parole dello scrittore, appartiene ad un ragazzo di ventiquattro anni che la notte dell’insurrezione peronista si trova in una casa nel barrio Florida, a nord di Buenos Aires, assieme ad un gruppo di conoscenti per ascoltare la radiocronaca del grande incontro di boxe che si svolge al Luna Park. Sono circa le ore 23 del 9 giugno quando, nel silenzio notturno, risuona il grido – Polizia! – e violenti colpi sono assestati alla porta con il calcio di un fucile. Un drappello di poliziotti e di civili armati irrompe minacciando, malmenando, sbraitando con voce rabbiosa – Dov’è Tanco?
Il capo del gruppo si chiama Desiderio Fernandez Suárez, è un uomo corpulento e autoritario, indossa l’uniforme dell’Esercito e punta immediatamente una calibro 45 alla gola di uno degli ospiti. Nessuno ancora è al corrente del fatto che in Argentina è svanito quell’illusorio spartiacque che demarca i confini fra polizia ed Esercito. Tutti i prigionieri di Florida sono condotti all’Unità Regionale di Polizia.
Verranno fermati in quella notte asfissiante anche altri tre uomini non presenti nella casa al momento della retata: un tassista fermo nei dintorni, un guardiano notturno italiano e un ragazzo che ha accompagnato a casa la propria compagna.
Alle 00:32 del 10 giugno (quindi suppergiù un’ora e mezza dopo) la Radio di Stato annuncia a reti unificate l’entrata in vigore della Legge Marziale su tutto il territorio nazionale come risposta alla controrivoluzione in atto da parte del generale Valle e del generale Tanco.
Verso le 4:47 dello stesso giorno, dopo infruttuosi interrogatori, tredici fra gli uomini arrestati a Florida vengono condotti, senza addurre spiegazioni, in un immondezzaio in periferia in cui viene data RETROATTIVAMENTE applicazione alla Legge Marziale attraverso la fucilazione – essendo gli uomini stati arrestati prima dell’entrata in vigore della Legge Marziale non potevano averla violata.
Tuttavia accade qualcosa di inaspettato, qualcosa che farà cedere l’architrave d’omertà di un intero sistema. Sette uomini miracolosamente scampano alla propria sorte. Juan Carlos Livraga, con il viso perforato, è fra questi. Cinque uomini decedono nella notte porteña, vittime di un crimine di stato.
Come Egon Erich Kisch durante il regime nazista, Rodolfo Walsh, insieme a Enriqueta Muñiz, denuda la feroce miopia ideologica che annienta qualsiasi opposizione alle forze armate. Nel massacro, nel suo occultamento, nella successiva assoluzione dei colpevoli da ogni capo d’accusa, sono coinvolti tutti i vertici militari che precedentemente avevano rovesciato il Presidente Juan Domingo Perón.
Operación Masacre però non è una semplice indagine, è un’autopsia: l’autopsia del corpo di un popolo suppliziato, umiliato, dissezionato e fatto sparire. Rodolfo Walsh riattribuisce dignità ai volti senza nome, ai luoghi senza storia, “senza speranza di essere ascoltato. Con la certezza di essere perseguitato” da un meccanismo che fa del sopruso il suo modus operandi e della menzogna la propria costituzione, da un crimine che si ramifica e si autoalimenta.
Più della carneficina, dell’omicidio in sé, è la tortura il regno in cui risiede l’indistinta paura. Operación Masacre è stritolata dal senso di paura che pervade e inonderà l’intera Argentina, dal rintocco lento e meticoloso dei tremiti d’orrore che saturano i tessuti.
“La carneficina di giugno esemplifica ma non esaurisce la perversità di quel regime. Il governo di Aramburu mise in carcere migliaia di lavoratori, represse tutti gli scioperi, smantellò l’organizzazione sindacale. La tortura dilagò e si estese a tutto il paese. Il decreto che proibisce di nominare Perón o l’operazione clandestina che sottrae il cadavere di sua moglie, lo mutila e lo porta fuori dal paese1, sono espressioni di un odio a cui non sfuggono nemmeno gli oggetti inanimati, le lenzuola e le posate della Fondazione Eva Perón incenerite e fuse perché portano impresso un nome che si considera demoniaco”.
Si assiste alla riesumazione della brutalità inquisitoria nello scontro fra due classi: il dirigente Lizaso viene scorticato vivo, l’ex deputato radicale Mario Amaya ucciso a bastonate, l’ex deputato Muñiz Barreto con un colpo alla nuca. La testimonianza di una sopravvissuta: “Picana su braccia, mani, cosce, vicino alla bocca ogni volta che piangevo o pregavo… ogni venti minuti aprivano la porta e mi dicevano che mi avrebbero fatta a pezzi con la sega elettrica che si sentiva”.
Allo stesso tempo, accanto a questo sopruso, Rodolfo Walsh descrive una prevaricazione distinta che si consuma durante la dittatura di Aramburu, un crimine sotterraneo che trancia la capacità economica del Paese. L’Argentina si indebita ingentemente, trasferisce all’estero capitali costituiti dai risparmi nazionali, cede miliardi di dollari alla banca internazionale la quale strozza la piccola impresa dissodando il terreno per l’ingresso dei grandi monopoli, riduce il salario dei lavoratori del 40% in un solo anno, porta sino a 18 le ore lavorative necessarie per il sostentamento di una famiglia. In alcune aree di Buenos Aires il tasso di mortalità infantile sfiora il 30%.
Il tenente colonnello Hugo Ildebrando Pascarelli nel 1976 afferma: “La lotta che portiamo avanti non conosce né limiti morali né naturali, si realizza al di là del bene e del male”. Pascarelli, capo del gruppo d’Artiglieria di Ciudadela, è il presunto responsabile di 33 fucilazioni tra il 5 gennaio e il 3 febbraio 1977.
Il mio amico a questo punto indugia, rimarca con più fiato un respiro e posa sulla mia spalla una mano. Abbiamo appena concluso la passeggiata attorno il complesso dell’Università.
Che ne è del giornalista? L’hanno ammazzato? – domando.
Mi risponde indicandomi la smisurata struttura della FIUBA – Rientriamo –
Poco oltre l’uscio mi accorgo di una teca, sfuggitami in precedenza. All’interno di essa c’è una macchina da scrivere spaccata in due, morta e luccicante come una carogna, e una targa d’appartenenza: Rodolfo Walsh.
È la risposta.
a cura di Giovanni Mastropasqua