Cade la pioggia dal cielo di Napoli in una notte che sembra essere sospesa in mezzo alle stagioni. Lo scirocco sta portando la sabbia del sud nell’aria, mentre i basalti del centro storico risplendono lucidi della pioggerellina leggera che cade improvvisa. Stasera al Lanificio 25 c’è Diodato, cantautore con spiccata vena rock, anima tarantina e romano d’adozione. Un disco d’esordio, E forse sono pazzo, nel 2013, quindi, l’anno successivo, un secondo posto, con Babilonia, nella sezione giovani, al Festival di Sanremo. Lo stesso anno, partecipa a Che Tempo Che Fa, dove si esibisce reinterpretando cover dei grandi cantautori degli anni sessanta (che confluiranno nel disco A Ritrovar Bellezza). Un premio Mtv Best New Generation e il prestigioso Premio De André. Poi il silenzio. Nel 2016 una collaborazione in Acrobati di Silvestri, la partecipazione, chiamato da Manuel Agnelli (con lui in una delicatissima versione de La voce del silenzio) come autore per un brano di X Factor e, finalmente, il 27 gennaio la pubblicazione di Cosa siamo diventati, disco di grande equilibrio ed estrema bellezza.
Abbiamo il tempo di intervistarlo subito dopo il soundcheck curato da Matteo del Lanificio e Daniele “Il Mafio” Tortora, anche produttore artistico dell’album, per tornare, un paio d’ore dopo, con ancora bene impresse le parole con cui ha saputo raccontarci il suo rapporto con il nuovo lavoro.
Calano le luci, la band sale sul palco e parte subito con il brano che dà il titolo all’album. Un manifesto delle due anime del musicista pugliese: un’elegia cantautorale che sul finale lascia spazio a una lunga coda strumentale di rock granitico che ricorda, soprattutto nella batteria di Alessandro Pizzonìa, con tanto di T-shirt di Unknown Pleasures, l’incidere di Tongue di Jeff Buckley. La band accompagna Diodato sulle note struggenti di Colpevoli, dove si fa più forte l’influenza del rock-pop britannico degli anni novanta grazie anche e soprattutto alle atmosfere create dal bravo Duilio Galioto al piano, organo e synth. Un’atmosfera più secca segna l’inizio di Paralisi con il suo ritmo da marcetta inquietante, sorretta dalla batteria e dal basso di Simone De Filippis (che sostituisce, nel tour, Danilo Bigioni) che si apre su radure distese dove la voce di Diodato sale alta e limpida. Durante l’intervista c’era stato qualche colpo di tosse e la preoccupazione di non essere al top, eppure una volta sul palco non c’è alcuna traccia di difficoltà. Quella di Diodato è una delle voci più pulite del panorama nazionale e impressiona la facilità con cui raggiunge le note alte, gestendo falsetti perfetti senza perdere né d’intensità né di espressività. Sul palco scopriamo anche un lato diverso da quello del ragazzo cortese incontrato prima nei camerini. Complice la dinamica del pezzo, Diodato si dimostra anche eccellente performer con una tenuta quasi teatrale del palcoscenico, dove si muove molto tra i suoi musicisti e riesce a creare ulteriori elementi di emozione per rivestire i sentimenti messi a nudo nei suoi testi che sono come ferite ancora aperte.
È il suo primo vero concerto a Napoli, Diodato è emozionato e felice di essere qui e poco importa se non c’è il pubblico delle grandissime occasioni, non risparmierà niente di sé per tutto il tempo, riuscendo a creare una grande connessione col pubblico. Che, va detto, ricambia in maniera totale, la stessa dedizione. Molti cantano le canzoni a memoria, Agnese, sotto il palco è scatenata e non può non strappare un sorriso per la sua passione a chi le è accanto tra il pubblico, e allo stesso Diodato sul palco.
Un delicato carillon di note à la Yann Tiersen introduce la bellissima Fiori Immaginari che si trasforma quasi in una ninna nanna in grado di cullare il pubblico in sala. Colpisce tantissimo questa grazia naturale con cui è capace di rivestire il racconto delle proprie emozioni, una storia, il suo vissuto, come ama chiamarlo, che diventa un elemento centrale e che riesce a trasformare in un’esperienza che, dal palco, scende come un’ombra tra il pubblico, a recuperare, nella memoria del cuore, le stesse ferite e gli stessi sorrisi. Anche qui, alla dolcezza, subentra la grande forza musicale della band che appare in certi momenti impressionante per bravura, intensità e coesione. Guai, con le sue venature blues, è un ritratto in cinemascope che diventa un dialogo scandito dal ritmo tra il pubblico e i musicisti, poi arriva il momento, per Diodato, di imbracciare la chitarra acustica (la stessa delle foto promozionali con inciso la scritta “Fragile” sulla fascia inferiore) per La luce di questa stanza, il brano che chiude il disco, sospeso tra il passato e il futuro, tra rimorsi e rimpianti, tra l’amore e la distanza e anche il Lanificio finisce con l’essere sospeso, nel tempo e nello spazio, come a sciogliersi dentro a una nuvola di tenerezza e serenità e improvvisamente ogni distacco, per quanto difficile, sembra poter essere accarezzato da una luce di bellezza. Sorprende, in questo nuovo lavoro, l’equilibrio raggiunto tra stili musicali anche distanti, e nella sua resa dal vivo, nulla si perde di quel fascino che fin da subito l’ha fatto apprezzare come un classico senza tempo. L’incontro tra la passione per il rock britannico e l’amore, più tardivo, per il cantautorato italiano, lungi dal produrre un ibrido pericoloso, si risolve invece in maniera perfetta in uno stile autentico che non tradisce debolezze.
È il tempo di recuperare i pezzi migliori del primo disco, che risentono positivamente della nuova maturità artistica raggiunta. Ubriaco, oggi ci appare come il prologo di Guai, all’inizio de I miei demoni, invece, Diodato lascia il palco alla sola band che si dà un gran da fare (resta da citare il bravissimo Daniele Fiaschi alla chitarra). Con Ma che vuoi, il solo pezzo esplicitamente politico del suo repertorio, Diodato gioca con il battito delle mani del pubblico, lanciandosi con la band in una vera e propria cavalcata stoner rock.
Bastano poche note e capisci che sta arrivando una cover, quella di Amore che vieni, amore che vai di Fabrizio De Andrè, che ha inciso nel 2013. Ed è impossibile non cantarla, cercando di seguire questa versione impreziosita da un’interpretazione assolutamente personale, sospesa tra un candore lirico e le distorsioni rock, che riesce ad allontanarsi dall’originale senza tradirne spirito e struttura.
Arriva il momento di Mi si scioglie la bocca, la ballata che è stata scelta come singolo, per le sue sonorità sicuramente più radiofoniche. Tocca poi a Per la prima volta, introdotta solo da piano e voce: è un pezzo che nemmeno era previsto per i live, ci spiega Diodato, poi, grazie a un tamtam tra social e pubblico, si è reso conto che la storia che raccontava era qualcosa che apparteneva un po’ a tutti. Per sottolineare l’omaggio al suo pubblico, si siede allora sui gradini che portano sul palco per rimarcare ancora una volta questo senso di fortissima vicinanza, dandosi completamente, senza maschere a chi gli è davanti, e lo ascolta o lo fotografa, cercando di portarsi un pezzettino di tutta questa emozione a casa. Torna a imbracciare la chitarra per Uomo fragile, tra i pezzi più amati del disco e non ha nemmeno il tempo di annunciare il finale che già si ritrova a restare da solo sul palco per cantare, voce e chitarra, Babilonia insieme al coro del pubblico.
Non si può non sottolineare il senso di compiutezza dei pezzi, una qualità oggi sempre più rara anche tra molti autori e colleghi che pure attraversano lo stivale con successo, così come il lavoro eccellente fatto in studio che si rispecchia anche nella dimensione live dove, inevitabilmente, la componente rock riguadagna terreno rispetto alla parte più introversa e autoriale. C’è tempo ancora per un ultimo pezzo insieme a tutta la band, Di questa felicità, ed è la festa con cui chiudere lo spettacolo grazie al suo andamento più scanzonato, un inno alla vita e, insieme, l’occasione per liberare sul palco tutta l’energia ancora rimasta.
Ma ce ne sarà ancora quando si accendono le luci per firmare autografi, lasciarsi fotografare e scambiare una chiacchiera amabile con tutti i fan che lo aspettano fuori dal camerino.
(Tutte le foto di Martina Esposito)
Scaletta
- Cosa siamo diventati
- Colpevoli
- Paralisi
- Fiori immaginari
- Guai
- La luce di questa stanza
- Ubriaco
- I miei demoni
- Ma che vuoi
- Amore che vieni, amore che vai
- Mi si scioglie la bocca
- Per la prima volta
- Uomo fragile
- Babilonia
- Di questa felicità