Come la maggior parte dei festival anche il Rock En Seine ha dovuto rinunciare alle edizioni del 2020 e 2021 a causa della crisi sanitaria, quest’anno però la musica è tornata ad accendersi nel Parco Saint-Cloud a Parigi. L’esperienza Rock En Seine è quella di un festival immersi nel verde di un grande e storico parco, lunghe e piacevoli camminate tra palchi e stand in uno scenario magico, là dove un tempo sorgeva un castello andato in fiamme. L’edizione 2022 della quattro giorni di festival si era annunciata con un cartellone scintillante di nomi: tra gli headliner Arctic Monkeys, Nick Cave & The Bad Seeds, Tame Impala, Stromae, e ancora Kraftwerk, Idles, Fontaines DC, Aldous Harding e tanti altri. L’avventura di un festival però non si riduce solamente ai suoi nomi di grido, sono le scoperte per caso in cui ci si può incappare tra un palco e l’altro a ravvivare lo spirito di un festival. Con questa natura da avventurieri dell’azzardo le persone sono tornate a riempire il festival, con una grande voglia di musica dal vivo e di staccare la testa per qualche giorno. Francesi, inglesi, italiani, belgi: ai festival l’Europa resiste nel suo essere insieme.
Oltremanica, oltreoceano
Il giorno di apertura del Rock En Seine è quello dall’accento più britannico, con il nome degli Arctic Monkeys a fare da attrattore di folle, attese ed estenuanti file nei bar. Girando nel parco di Saint-Cloud è facile incrociare ogni genere di maglietta inneggiante alla band e al suo leader (“Alex Turner ruined my life”); sono gli Arctic Monkeys il nome di richiamo e gli headliner della giornata inaugurale, eppure il momento culminante di un festival è troppo personale perché diventi un assoluto per tutti i presenti. C’è chi si lascia conquistare dalla scanzonata gioventù degli Yard Act, che quest’anno si sono uniti alla sempre più affollata scena post-punk britannica con il disco di esordio The Overload, che li ha consacrati come una delle più fresche sorprese dell’anno. Non hanno paura del palco i ragazzi di Leeds, e sono in piena ascesa.
Yungblud
Sul palco principale della Grande Scène c’è poi la robusta e fluida presenza scenica di Yungblud, che riesce a cantare e saltare pure in mezzo alle fiamme rotanti, tirando fuori un live che esalta le sue qualità di performer. Su The Funeral la folla si lascia andare a cantare insieme a lui in un lungo coro sotto il sole delle cinque della sera. Più defilata al palco Bosquet c’è invece la cantautrice filippino-britannica Beabadoobee, che con voce e chitarra negli ultimi anni è riuscita a conquistarsi una bella e combattiva base di ascoltatori e innamorati che disertano gli Inhaler – in contemporanea al palco La Cascade.
Beabadoobee
Se il momento culminante di un festival è una questione piuttosto personale, nel caso di un festival che propone “El Clásico” della piccola sfida tra gruppi della scena punk e post-punk d’Oltremanica come Idles e Fontaines DC, potrebbe essere pure una questione di diverse filosofie. Gli Idles sono puro punk, rabbia, chitarre; i Fontaines DC sul palco sono più esistenzialisti. È la fine dei Settanta che si scontra con l’inizio degli Ottanta. L’urlo contro il disagio e lo spleen in versione Irish. Gli Idles erano stati tra i protagonisti del Rock En Seine nel 2018; già allora la band di Bristol ci aveva confermato che le chitarre non sono mai morte, semmai suonano ancora vivissime e graffianti. A distanza di qualche anno Joe Talbot si è fatto più duro, più urlante, più vomitante; la sua voce è puro heavy e diluvio. Sul palco vibra energia. La serata è ancora giovane a venire.
Idles
Se il Regno Unito è spavaldo quando indossa la camicia bianca, il più glaciale Grian Chatten dei Fontaines DC sale sul palco casual e canta senza tanti fronzoli. Dopo l’adrenalina Idles, i Fontaines DC circolano più lentamente in vena e nel cervello, con un effetto intimo e dissetante. Non c’è nessuno che sia Ian Curtis, ma le corde che toccano gli irlandesi tendono a quelle della musica dei Joy Division. Così i pezzi dell’ultimo album Skinty Fia sono pura gioia all’ascolto, e l’intero live una catatonia sonora intarsiata dai suoni delle chitarre e della batteria. È come catapultarsi dentro un incantesimo che dura il tempo che dura, infilandosi sottopelle; i Fontaines DC ci regalano uno dei live più belli e generosi di tutto il festival chiudendo con una I Love You dedicata a tutto il pubblico.
Fontaines DC
Per molti però il momento culminante della prima giornata è l’entrata sul palco di Alex Turner e gli Arctic Monkeys. Una gran folla ad attenderli. Tanto più che il gruppo ha da poco annunciato un nuovo album in arrivo il prossimo ottobre. Quali direzioni prenderanno? Sarà un ritorno alle origini indie-rocker, o la continuazione del nuovo percorso segnato dopo l’uscita di Tranquillity Base Hotel & Casino? Quando sul palco la band fa partire a sorpresa uno dei nuovi pezzi dall’album futuro (presumibilmente “There’d Better Be a Mirrorball”) è chiaro che gli Arctic non siano proprio quelli degli inizi. C’è qualcosa nel loro suono e nella loro attitudine che è cambiato – forse è per questo che c’è chi rimprovera a Turner di avergli rovinato la vita. A volte ci si rimprovera per poco a questo mondo. Facciamo che agli Arctic Monkeys non rimproveriamo nulla. Anche se suonano deboli, suonano davanti a una folla carica sul palco principale, con una metà dello spazio delle prime file occupata dal nuovo Golden Pit riservato al “pubblico VIP” del festival.
Lo spazio Golden, a cui era possibile accedere con un sovrapprezzo, portava con sé il brutto difetto di assecondare le differenze persino dentro quello che dovrebbe essere lo spirito comunitario di un festival. Per questa ragione si è attirato diverse critiche per aver tagliato in due settori il sottopalco principale, tanto più che in alcune occasioni è rimasto mezzo vuoto. Il secondo giorno, al concerto di Aldous Harding, il vuoto che lascia il Golden Pit sottopalco è visibile a occhio nudo. Lei non ci fa caso, e canta in maniera fantastica per tutto il set. La voce della neozelandese Aldous Harding è distintiva: ci avvolge sotto la dolce brezza della fine dell’estate, e ci accompagna a suoni e sogni meridiani. Un perfetto aperitivo allo shoegaze dei DIIV, che davanti a una folla acclamante e incantata dalla loro musica confessano di non avere mai suonato davanti a così tante persone. La gente si scalda ancora di più, e si lascia trascinare dalle chitarre in un perfetto abbandono. Siamo figli del secolo che ci è toccato.
DIIV
Tra rock, elettronica e nuove gioventù
Il Rock En Seine ha sempre ambito a spaziare tra generi ed esplorare nuove sonorità, mantenendo viva la sua attitudine al rock più puro. Per questa ragione non potevano mancare i The Limiñanas, storica formazione rock francese che ha un suo pubblico di affezionati e seguaci. Lionel e Marie Limiñana sono musicisti incredibili; guardare lei che suona la batteria ruba le orecchie. C’è una forte energia che si crea durante il live dei Limiñanas: la gente ha voglia di muoversi e ascoltare il rock che mai muore. La stessa energia si trasferisce qualche istante dopo verso il palco Cascade, dove invece c’è James Blake con la sua elettronica sperimentale e la sua voce inconfondibile – di quelle che si amano o si odiano. Negli anni Blake è diventato un musicista più audace, si è spinto agli estremi senza avere paura di scontentare il suo pubblico. Al Rock En Seine ci regala un concerto che gioca con i linguaggi dell’elettronica e le sue contaminazioni, dalla classica Limit for Your Love fino ai pezzi dei dischi più recenti, con un set che sul finale si trasforma in un piccolo rave che fa ballare il pubblico.
James Blake
Sullo stesso palco un’oretta dopo suonano anche i Kraftwerk, una delle performance più attese della seconda giornata. Con i loro visual e la loro musica i Kraftwerk ci catapultano a qualche decennio fa e a un’estetica da vecchio computer game – anche se pezzi come Radioactivity ai giorni nostri sono ancora attualissimi. Sembra quasi di muoversi sul mondo che va ad autodistruggersi, là tra le memorie perdute di ciò che è stato a Hiroshima, Chernobyl o Fukushima. L’occhio, le orecchie: tutto è concentrato e teso verso il palco durante il live della storica formazione tedesca. Computer Love, Trans-Europe Express, Tour de France: è dolce il calare nei pezzi più storici dei Kraftwerk, un affascinante rendez-vous che sa di viaggio nel tempo.
È l’ora delle vecchie glorie che parlano alle nuove generazioni al Rock En Seine, e subito dopo i Krafwerk c’è il concerto di Nick Cave & The Bad Seeds. Il nuovo tour di Nick Cave è una tappa imperdibile dei concerti della stagione, chi ha potuto vedere una delle due date italiane di Taranto e Verona potrà confermare. Nick Cave è in una forma smagliante, con un ispiratissimo Warren Ellis al fianco che diventa sempre più protagonista, capace di suonare qualsiasi cosa possa emettere un suono, e tre splendide coriste che accompagnano il live con le loro danze e canti. Non ha importanza che siate tra gli stoici idolatri da sottopalco che allungano il braccio per toccare il corpo di un Nick Cave che – famelico come un ragazzino – corre, salta e si lancia tra il pubblico, o che siate semplici ascoltatori di bella musica: il concerto è un’esperienza totalizzante. Nick Cave canta e decanta: brani storici del repertorio come From Her to Eternity o Into My Arms, fino a quei pezzi più recenti di Carnage e Ghosteen che mettono brividi e commozione per come riescono a uscire fuori struggenti e veri. Come dentro un’opera maledetta o un poema epico, ci caliamo nel mistero profondo della musica senza scampo e non ne usciamo fuori finché non è finita, canticchiando ancora ad libitum.
Nick Cave & The Bad Seeds
Un piccolo giro del mondo in poche ore di musica
Invenzione. Comunione. Determinazione. Le parole e i claim della quattro giorni di Rock En Seine sono parole chiare. Se da anni il festival si è consacrato come uno degli appuntamenti più importanti e attrattivi dell’estate europea, è anche per un programma di ricerca che premia le chicche e le scoperte che si possono ascoltare al palco Firestone. Lucy Blue è una giovanissima compositrice di Dublino che non ha nessuna paura del palco, anche se si lascia attendere per qualche minuto prima di uscire sul palco. I Klangstof sono già attivi da qualche anno, ma hanno l’aspetto di una stuzzicante scoperta venuta dall’Olanda, la loro musica cattura con semplicità.
L’esperienza Rock En Seine è un piccolo giro del mondo condensato in poche ore di musica. Incontri, incroci, viaggi e guizzi sonici – improvvise accelerazioni e rallentamenti. Il festival offre una prospettiva sulla musica francese con i La Femme o Vendredi Sur Mer, e sulla musica italiana, di quella che si lascia ascoltare oltreconfine, come è il caso dei nostrani Nu Genea, che ci regalano un set ritmato, audace, eclettico: lo spirito funk napulegno che cala a picco sulla Senna. Si parte per la Scandinavia sulle note della musica della norvegese Aurora, con i suoi bianchi costumi e la sua carica naturale. Solare e autentica, sul palco Aurora ricorda al pubblico quando da ragazza andava pure lei al Rock En Seine: ora torna nella versione di artista, e non può che esserne felice. Anche queste sono piccole storie che è possibile incontrare a un festival per caso.
Più in generale il Rock En Seine è una grande comunione di suoni, paesi, esperienze sonore e umane. La grandezza esibita e consacrata dei Tame Impala, e gruppi ancora relativamente piccoli ma vivaci ed elettrici come gli Squid, con il loro pubblico giovane e audace di saltatori e urlatori. Il loro live è esilarante. C’è la Londra neo-soul di Joy Crookes, con la sua gagliarda gioventù canora e il suo pubblico di aficionados che si scalda su Wild Jasmine. E c’è pure la Londra della scena elettronica, quella di Jamie XX e Fred Again, che ci regala uno dei set più rilassanti e immaginifici dell’intero festival. C’è l’America di Perfume Genius e l’Australia dei Parcels. Si gira il mondo, ma il finale di stagione non poteva che essere affidato a un re del palco come Stromae. Già fenomeno del cantautorato in lingua francese, con l’ultimo album Multitude, Stromae si è conquistato l’attenzione non solo delle riviste di musica ma anche di quelle di filosofia. “Da Camus a Stromae: come sfuggire alla tentazione del suicidio”, recita il titolo di un articolo che analizza il testo di un brano potente come L’enfer. Non c’è solo talento, ma anche tormento negli occhi e nella voce di Paul Van Haver. Forse è così che si conquista gli ascoltatori – che gli parla, e loro parlano con lui.
Joy Crookes
È bello quando accade la miracolosa connessione tra artista e pubblico. Non sempre succede: non ci si può aspettare che succeda di continuo, con i Parcels non mi è successo. Non ci si può aspettare nemmeno che sia possibile vedere ogni concerto, io ne ho persi diversi. Ma l’aspetto felice di un festival è la scoperta dello sconosciuto, la vena da esploratori di suoni che mette in circolo un evento del genere. In questo senso il Rock En Seine vince la sua sfida: tutto è in timing e ci si sposta con relativa facilità anche quando bisogna camminare a ritmo alto da una parte all’altra del parco facendo alzare per aria la polvere. Sarà per questa ragione che il festival attira ogni anno un pubblico più vario e internazionale. Questa edizione si è chiusa con 150.000 presenze. Dopo due anni di pausa non era scontato, o forse sì. Le luci si spengono al Parco Saint-Cloud, si cammina a riverso attraversando il panorama della Senna, la metro sferraglia: il Rock En Seine rinnova la sua avventura per la prossima edizione.
Tutte le foto sono di Anna Chasovskikh