Tutte le foto sono di Sara Buonomo
Da quattro anni a questa parte, gli ultimi giorni delle mie estati sono scanditi dal Rock En Seine, appuntamento irrinunciabile per passare un po’ di tempo nella splendida cornice naturale del Domaine de Saint-Cloud ascoltando concerti interessanti che ultimamente abbracciano tutti i generi musicali prendendosi beffa dello storico nome della kermesse parigina. Ma al giorno d’oggi del resto, ha ancora senso parlare di rock? E se si, in che misura?
Dopo aver aver organizzato una coraggiosa scorsa edizione che ospitava prevalentemente artisti della scena hip hop (altrettanto coraggiosa si é rivelata poi la scelta di affidare a un gruppo come i PNL l’headlining della prima serata), gli organizzatori hanno deciso quest’anno di dare da subito un segnale di discontinuità, cambiando musica (lol) e accontentando chi lamentava che il rock ormai nella storica kermesse fosse presente solo nel nome. Insomma la prima band a essere annunciata, ben sei mesi fa, è stata i Cure, per quella che si è poi rivelata l’unica data francese della band.
Accade così che nella prima giornata di festival, sembra di essere a un enorme concerto dei Cure accompagnati da una serie di gruppi spalla, più o meno famosi a seconda dell’età e del background musicale dei fan storici accorsi. Ma come poteva essere altrimenti? Stuoli di fan almeno quarantenni sfoggiano meravigliose acconciature gotiche e accompagnano i più giovani, ugualmente rapiti in anni diversi dalla storica band. Potere dell’evocazione, potere del rock’n’roll.
Nel pomeriggio un godibilissimo concerto dei Balthazar infiamma la Grande Scène, già gremita nonostante il sole cocente. Il duo presenta il nuovo album Fever, i cui brani scorrono leggeri e coinvolgenti tra cavalcate funk e sfacciati ma eleganti refrains. Il loro set colorato accompagna splendidamente il sole che inizia a scendere dietro gli alberi.
Sono ormai le 19 quando à salire sul palco è Jeanne Added. L’artista francese regala un set dinamico e originale, in cui l’electro e la sua estensione vocale la fanno da padrone. Balla, si agita e tiene il palco magnificamente, riscaldando per bene (qualora ce ne fosse ancora bisogno) il pubblico che sembra apprezzare senza ritegno. I brani di Radiate viaggiano su tappeti di tastiere tremolanti e si aprono in squarci electro e soul. Bella scoperta per me, ho fatto bene a fidarmi delle voci.
Quando vedo il palco su cui deve esibirsi Johnny Marr ho un sussulto, lo ammetto. Un palchetto minuscolo rispetto alla fama e ai meriti dell’artista che deve ospitare. La buona notizia è che di certo gli spettatori non si son dimenticati di lui e affollano tutto lo spazio a disposizione per poter godere della chitarra del musicista inglese. Dopo solo un primo brano di riscaldamento dal suo repertorio solista, è subito Bigmouth Strikes Again. Fa strano ascoltare dal vivo un brano del genere, per chi come me è sempre stato abituato a pensare agli Smiths come una band da ascoltare e riascoltare in vinile, band che ahimé non avrà mai più il privilegio di vedere, se non spaccata in pezzi. Il pezzo in questione non la manda certamente a dire quando si tratta di ricordarci chi è che dettava il suono del gruppo. Il risultato complessivo però devo ammetterlo, mi lascia un po’ di amaro in bocca, perché anche la successiva ripresa di How soon is now?, seppure trascinante, suggerisce di star ascoltando una vecchia gloria decaduta che sa ancora suonare, per carità, ma che nessuno avrebbe giudicato straordinario se non fosse legato agli Smiths, poco male. La base c’è, il piglio pure, ma manca qualcosa che vada un pò oltre il compitino (la voce di Morrissey ? Chissà…), ci vedo un coinvolgimento forzato. Avrei forse dovuto abbandonare il concerto per andare ad ascoltare un po’ gli Eels che si esibivano sul palco accanto? Non so, sono sempre stato un po’ romantico in fin dei conti…una cosa è certa, si è fatta ora di avvicinarsi al palco principale. Il grande momento della giornata sta arrivando.
C’è l’atmosfera dei grandi eventi sull’Esplanade, la densità tra gli spettatori è al limite, alle 21 esatte, le luci si spengono e i Cure si presentano, tra gli applausi. Un Robert Smith sornione e schivo saluta il pubblico facendo un timido giro sul palco. In sottofondo i campanelli iniziano a tintinnare e l’usuale apertura con Plainsong è assicurata.
Assistere a un concerto dei Cure, nel 2019, è un po’ come vedersi passare tutta la vita davanti, un turbine di sensazioni, immagini e coincidenze che ti si presenta davanti agli occhi, seppur del tutto spalancati per guardare l’evento. La band inglese festeggia 40 anni e Disintegration (da cui pescheranno tantissimi brani) ne ha appena compiuti 30, eppure la voce di Robert non si è mossa di un filo, è rimasta invariata, ad accentuarsi è stata invece la sua teatralità. Il pubblico è perso nell’’incedere lento e solenne del brano d’apertura, il cui ritornello ben descrive le nostre sensazioni :
« Sometimes you make me feel like I am living at the edge of the world, it’s just the way I smile, you said. »
E saranno a grande sorpresa i sorrisi a farla da padrone. Si capisce subito che sono in grande forma, soprattutto quando parte una bellissima versione di Pictures of you. Robert dondola insieme alla sua chitarra, Simon Gallup detta il tempo, frenetico, sale sulle casse monitor e corre avanti e indietro sul palco. Tra la gente è impossibile resistere all’impulso di cantare. Sarà così per ben 2ore e 20, con una scaletta al limite del greatest hits : 27 brani che coprono tutti i generi, le epoche e gli umori della band inglese.
C’è una canzone dei Cure per tutto, diciamocelo. C’è il post punk e la darkwave degli esordi (Primary, A Forest…), il pop raffinato degli anni ’80 (A Night Like This), le delizie scanzonate che fanno parte della nostra vita (In Between Days, Just Like Heaven), e poi c’é Lovesong, e la pulsante Fascination Street.
Chicca dopo chicca, emozione dopo emozione, Robert mette da parte la sua proverbiale timidezza e mostra il sorriso dietro il rossetto e l’eyeliner. L’interazione con il pubblico è forte. Tutti sanno esattamente quando bisogna cantare in coro (Push, Play for Today), quando e come battere le mani (sull’epico finale di A Forest per esempio), o quando semplicemente lasciarsi trasportare dallo spleen, come in quel lunghissimo capolavoro che è From the Edge of the Deep Green Sea.
È un live quasi gioioso per certi versi, la cupezza sembra essere messa nell’angolo. Si assiste così alla celebrazione di una band che non ha più null’altro da dimostrare e che è sicuramente tra le più longeve di sempre, soprattutto se misuriamo la longevità con la credibilità dal vivo (cosa ache potissimi miti del passato riescono ancora a garantire). La parte principale del set si chiude con una micidiale versione di Disintegration, ennesimo capolavoro di una vita.
Dopo una breve pausa i nostri ci regalano un encore spensierato e sbarazzino che inizia con Lullaby, e mette in fila pezzoni pop del calibro di Why can’t I be you ?, Close to me e la fantastica Friday I’m in Love (del resto é pur sempre venerdi). Ancora una volta Robert scherza col pubblico, cerca di sfoggiare il suo francese corroso dal tempo e sorride ancora, sorride timido e sornione. La classica Boys Don’t Cry chiude così un live clamoroso e memorabile, che sotto sotto tutti sperano non sarà l’ultimo.
L’umore non cambia la domenica, sole cocente e ottima atmosfera, con i Bring Me The Horizon che creano poghi assurdi tra la gente. Ma io sono diretto altrove.
Ogni volta che i Deerhunter salgono sul palco non sai mai benissimo cosa aspettarti. Ho sempre avuto la sensazione che la band americana si lasci molto trascinare dall’umore del momento. Il che può rivelarsi una micidiale arma a doppio taglio per la riuscita delle loro esibizioni. Insomma ci sono le volte che spaccano i culi e quelle in cui sono semplicemente ottimi ma senza troppe note di merito. La performance di Bradford Cox e soci al Rock en Seine si piazza giusto nel mezzo.
Il concerto parte benissimo con i brani dell’ultimo album. L’atmosfera pop un po’ malata di Death in Midsummer lascia subito ben sperare, No One’s Sleeping conferma la prima impressione ma è quando iniziano a succedersi i pezzi più belli di Halcyon Digest che qualcosa inizia un po’ ad offuscarsi. C’è un senso di svogliatezza generale che non riesce a dare alla seppur ottima performance il mordente giusto. Cox si muove come una diva sul palco, fiero nel suo rossetto e nel suo outfit elegante. Sembra dare poca confidenza al pubblico non numerosissimo. Si congeda dopo dieci pezzi con l’aria un po’ scazzata. Andrà meglio la prossima volta.
Non so bene cosa sia passato in testa agli organizzatori del festival quando hanno deciso di chiamare Aphex Twin per la serata di chiusura, ma ho molto apprezzato la scelta poco convenzionale e rischiosa. Dopo aver chiuso il festival negli anni passati con concertoni di sicura riuscita come Chemical Brothers, The XX e Justice, la scelta di puntare sul musicista inglese poteva rivelarsi un successo o un suicidio. Il bello di Richard David James, in arte Aphex Twin, è che nessuno ha la più pallida idea di cosa combinerà una volta salito sul palco, bisogna affidarsi alla sorte e al suo genio indiscusso. Il successo della sua performance sta proprio nella sua imprevedibilità. Si presenta dietro le macchine accompagnato da una donna e quello che presenterà per un’ora e mezza sarà un set claustrofobico, duro e cervellotico. Zero melodia, tanta techno dura e pura, molte immagini. L’artista inglese usa il pubblico come catalizzatore, proiettando sui grandi schermi le immagini degli spettatori nelle prime file e deformandole come la sua musica deforma la realtà. I volti sugli schermi saranno regolarmente sostituiti con il suo iconico sorriso da satiro. Sembra quasi di essere in un episodio di Black Mirror, tra i colpi secchi della techno e brevi piacevoli aperture melodiche. Le storpiature sullo schermo non riguardano più solo il pubblico ma puntano, a un certo punto dello show, anche alla Francia e ai suoi simboli, così i calciatori dell’equipe campione del mondo, il rapper Booba, Jean-Luc Mélenchon, Jane Birkin, Aya Nakamura, Johnny Halliday, Alexandre Benalla, Michel Houellebecq e tanti altri subiscono lo stesso trattamento e processo di trasformazione. Tutti per qualche secondo si trasformano in Aphex Twin. La faccia di Richard su tutto il resto.
Insomma per qualche ora anche il Rock En Seine si trasforma in Aphex Twin del resto, perché nonostante la Grande Scène non sia gremita come gli altri anni, tutti i presenti apprezzano e si godono un live ostico, provocatorio e affascinante. È bello rischiare qualche volta, ne vale davvero la pena. E mentre dal palco si sparano le ultime potenti cartucce, l’alito fresco che sale ci informa che anche quest’estate è finista. Non resta che darci appuntamento all’anno prossimo.