Abbiamo impiegato qualche giorno per digerirlo, ma possiamo dire ora che questo Robot 2018 non si è fatto mancare proprio nulla. Dai nomi inseriti in line-up, alle performance sulla terrazza dell’EX-GAM si conferma come uno degli eventi musicali bolognesi (di calibro internazionale) assolutamente tra i più articolati e meglio strutturati. Il festival è stato fissato dall’organizzazione da Shape durante le tre serate di chiusura della ricca Design Week bolognese, (rassegna outdoor “simil Fuori Salone”, in parallelo all’appuntamento fieristico del Cersaie), in modo tale da richiamare a sé non solo storici Robot-fedelissimi e appassionati del vinile, ma anche molti visitors collaterali, febbricitanti sia per il freddo improvviso degli ultimi giorni, che per l’atmosfera di mondanità eccezionale che ha caratterizzato tutta la settimana in confronto con quelli che sono gli standard della città durante il resto dell’anno.
Rispetto alle edizioni precedenti ciò che in primis ci ha stupito è stata la scelta degli artisti: provenienza e background estremamente differenti (italiani e nordeuropei, ma anche qualche ospite extracontinentale), che hanno proposto sulle stesse consolle variegate sfaccettature dell’infinito spettro elettronico, dalla techno più pesante alla lo-fi house, dall’elettropop alla drum and bass fino a toccare minimal e jazz-funk, con occasionali accompagnamenti di performance sperimentali e cantate dal vivo Nonostante la volontà del festival di continuare ad immedesimarsi in un lontano immaginario techno-rave, (vedi gli artwork a pixel del logo della decima edizione), percepibile anche solo entrando sul sito con la sua grafica pulita a sfondo nero, per quanto riguarda la varietà di genere della rappresentanza artistica (musicale e non), ci si sarebbe potuti tranquillamente avvicinare alle serate in camicia variopinta di colori sgargianti, proprio come si è presentato Lucio Aquilina dei Nu Guinea, fiammeggiante (anche per il bulbo) tra le nebbie della sala Magenta dell’EX-GAM. Location non casuali: da Palazzo Re Enzo, storico edificio gotico nel cuore della città, al Link, capannone industriale altrettanto storico per quanto riguarda le serate elettroniche bolognesi dal 1994, passando per l’EX-GAM (giovedì e venerdì sera), architettura razionalista di 2700 mq accanto al complesso fieristico, articolata su tre piani, con tanto di doppia sala per il djset, spazio centrale a doppia altezza che ha ospitato la curiosa installazione Quiet Ensamble (un enorme telone fluttuante illuminato), e terrazzo esterno dove gustarsi il tramonto sorseggiando drink costosissimi con sottofondo musicale stile Miami (peccato per la vista sul parcheggio).
Viene ribadita con insistenza l’impronta culturale che il festival si prefigge di avere, la pretesa di istituire un legame tra esigenze di sfogo giovanili e ricerca di stimoli oltre i confini geografici, emotivi, sensoriali e relazionali: «Perché se esiste un rapporto tra la parola ‘discoteca’ e la parola ‘cultura’ è in occasioni come queste che il legame appare fortissimo, inestricabile» ; così recita il manifesto dell’evento, accuratamente redatto da Pierfrancesco Pacoda, che liquida le possibili incomprensioni dicendo: «sempre accade con le subculture, c’è una energia che arriva ‘dal basso’ […] e che investe le piccole comunità. Un desiderio sotterraneo, distante anni luce dall’identificazione tra dj e pop star, che riporta la centralità dell’attenzione lì dove tutto è iniziato, sulla musica, su quell’incontro scontro di universi che caratterizza da sempre il dj style». Che queste teorizzazioni siano state effettivamente recepite e interiorizzate da un comune spettatore danzante, bhè, questo lo lasciamo decidere a voi invitandovi a partecipare ad una delle prossime edizioni, nel frattempo ci limitiamo a fare qualche commento sulle performance degli artisti che più ci hanno colpito.
I già citati Nu Guinea, (se non li conoscete andate presto ad ascoltare il loro ultimo album Nuova Napoli e leggetevi qualche intervista di cui il web è pieno, perché letteralmente ne parlano tutti), hanno fatto muovere le anche anche a quella porzione di pubblico da “oscillazioni del cranio e bicchiere in mano” tradizionalmente sempre resistente al ballo. Hanno riadattato le loro tracce per il live insistendo prima sulla sacralità nostalgica del progetto (con il featuring dal vivo con Napoli Segreta) poi calcando la mano sui beat afro figli delle recenti collaborazioni berlinesi con il leggendario Tony Allen. La chiusura ufficiale del venerdì sera è stata amministrata da Or:la, ben distante dallo stereotipo “modelle che fanno le dj”; se l’aveste incontrata davanti al bagno mai avreste pensato di starvi interfacciando con un vero e proprio animale da tasti oltre che una brillante e ora quotata producer (che viaggia in particolare tra acid e dance-house). Saranno forse proprio l’espressione seria e distaccata e lo sguardo tagliente sempre incollato alla consolle ad alimentarne il fascino, mentre Young Marco ha iniziato suonando sopra Born Slippy; difficile non catturare così il cuore del pubblico e far rimanere gli accendini nelle tasce, nonostante il contesto. Un djset molto divertente, tarato sull’orario ancora non inoltrato ed in crescendo sulla scia lasciata dai Nu Guinea che lo anticipavano.
Quando invece sono personalmente salita sul palco per fare qualche scatto a Claudio Coccoluto, ed un ragazzo mi si è avvicinato chiedendomi se mi ero resa conto del fatto che avevo appena guardato in faccia “la vera house made in Italy”, ho pensato di non avere in merito molto da aggiungere. Se non altro, anche se gli anni passano, il suo show a quanto pare non annoia mai, con suoni e tracklist che si ravvivano correndo a cavallo tra cult e freschezza; eterno. Ross from Friends, qui nella terza data italiana di quest’anno, ha caricato di grinta la delicatezza vintage dai toni pastello che lo caratterizza, mentre Trentemoller, nome super atteso che solitamente è “sufficiente” in quanto garanzia di sé stesso, ha lasciato un po’ attoniti i fans bramosi della sua arroganza nordica battente e riverberata, chiudendo il suo spettacolo quasi trequarti d’ora prima rispetto al programma, per lasciare il palco ad un robotico Levon Vincent, Caronte nel condurre all’alba i veri guerrieri della notte, con i suoi synth pazzi estratti direttamente dal videogaming anni Novanta. E poi si torna a casa con il sole, dispiaciuti di aver mancato un artista perché in concomitanza con altro, o di aver perso le uniche tracce che conoscevamo dello “straniero X che non passa mai per Bolo” per bere una birra in cortile e fare due chiacchiere, allora regolare Huston, il programma è ricco (e mi ci ficco), le cose vanno bene.
Report a cura di di Micol Gelsi e Marco Civolani