Negli ultimi anni la figura di Roberto Bolaño è diventata oggetto di un culto sotterraneo, complice la fortuna postuma dei libri dello scrittore cileno. Una speciale malattia che dall’America ha contagiato l’Europa e viceversa, sotto forma di parole, stralci, poesie, romanzi e suoi tentativi. Il mondo bolañiano ha così cominciato a assumere connotati sempre più mitici, un po’ come era già successo all’epica della letteratura beat, eccetto il fatto che nella mitologia bolañiana al centro c’è solamente lui: Roberto lo scrittore, i suoi personaggi, le sue parole. Lettore vorace, ladro di libri per amore, parolaio, cronopio, detective selvaggio sempre all’irrequieta ricerca di poesia. Un ammalato di letteratura che dentro le parole ci muore. Prendere una lingua e farne la nostra compagna più bella – è questo sentimento di possessione a dominare lo spirito del lettore bolañiano. Ancora oltre le parole, il mondo di Bolaño semplicemente arriva, si dirotta nei nostri cuori, si impone alle nostre anime e le possiede magicamente. La magia – sì, la magia è qualcosa che accade e basta.
Roberto Bolaño ci ha lasciato nel 2003, senza avere grandi certezze a proposito della sorte futura dei suoi scritti, dei suoi libri, e dei suoi personaggi una volta morto – anche se è facile immaginare che una parte di lui già sapesse, ma forse non al punto da arrivare a sospettare la futura Bolaño-mania. Per tutta la vita era stato devoto alla scrittura, aveva inventato storie, personaggi e mondi, continuato a collezionare parole tanto che parte della sua biografia trova coincidenza con l’ossessione artistica. Scrivere come vocazione, una chiamata all’anima da altri mondi: Bolaño ci ricorda l’infanzia illuminata di Rimbaud, il tormento indefinito dell’arte – non come terapia, ma come idea fissa e ossessione quotidiana, alzarsi al mattino per scrivere i versi di una poesia travolti dall’entusiasmo. Del resto leggendo Bolaño ci mettiamo in esplorazione di un mondo intero che trova la sua speciale divinità nelle parole, sono sempre loro le grandi protagoniste che si agitano dietro e dentro le storie. Ce ne accorgiamo inseguendo Arturo Belano ne I detective selvaggi e ritrovandone traccia qui e là, dando una vaga occhiata ad Amalfitano mentre lascia “un libro di geometria appeso alle intemperie”, nel notturno cileno che non si toglie di dosso – Bolaño ci catapulta in un mondo intero, fatto di connessioni, richiami, microcosmi (non capita di rado di ritrovare un personaggio sullo sfondo di un’altra storia). Ma al centro di tutta la faccenda ci sono sempre loro: le parole, la scrittura.
Muoversi tra le pagine – tra poeti, cowboy e patrie
Forse in pochi altri scrittori avvertiamo questo aspetto istintuale, l’urgenza di scrivere – che Bolaño scrivesse perché proprio non ne potesse fare a meno, che si alzasse al mattino ossessionato dalle parole, riportandole su carta in modo così naturale e animando una connessione realvisceralista con il lettore. Come se i cervelli e le sinapsi di questi due ignoti esseri umani – scrittore e lettore – entrassero in misterioso contatto pur non vivendo la stessa vita, ma replicandola all’infinito (del resto non ci sono modi illimitati di vivere una vita). Così veniamo scaraventati in un mondo affollato da suggestioni letterarie che ha tanto l’aspetto di un percorso iniziatico: a poco a poco si è pure capaci di orientarsi e allora il burrascoso incantesimo bolañiano è compiuto. Puoi sorridere e ridere mentre leggi, e puoi ancora innamorarti, replicare i vent’anni all’infinito.
« Avevo vent’anni ed era la prima volta che mi innamoravo! Lo capii all’istante… E senza che potessi evitarlo mi vennero le lacrime agli occhi… » (Sepolcri di Cowboy)
Sepolcri di Cowboy è l’ultimo libro postumo di Bolaño uscito in Italia (edizione Adelphi, traduzione di Ilide Carmignani) – l’ennesima ultima occasione per immergersi nel mondo dello scrittore cileno. Sembra di riconoscerlo subito, il gioco di persuasione è lo stesso, così come ritroviamo materie evocative che avevamo già avuto occasione di amare: la vocazione alla poesia, il Cile (predato, sconvolto dal golpe, madrepatria da cui fuggire), e il Messico con il suo deserto le sue biblioteche e i suoi cinema, terra sconfinata dove è possibile emigrare e crescere, l’amore a vent’anni e le ragazze, le lettere d’amore mai scritte, le chiamate telefoniche ricevute all’improvviso passeggiando intorno a una cabina, e Il Verme – il vecchio ricordo (quella sensazione istintiva) di averlo già incontrato in qualche racconto, e Breton e Nicanor Parra l’antipoeta. Sepolcri di Cowboy raccoglie tre tracce di romanzi mai conclusi, tentativi senza fine. Ma del resto il nostro rapporto con Bolaño non si è mai basato semplicemente su una pura questione formale come quella della trama, ha sempre avuto più a che fare con il ritmo, quelle visioni al microscopio con cui ci ha portato da una parte dall’altra a saccheggiare vite e vissuti; tanto che la sua opera somiglia a un’unica grande opera, un unico grande romanzo, una immensa poesia visionaria, o ancora a un’opera teatrale dove a turno i suoi personaggi si affacciano sul palco immaginario per sussurrarci: eccomi, sono vivo, esisto, quanto e come te che mi leggi. Il rapporto viscerale che Bolaño ha con i suoi personaggi si sente vivo saltar fuori dalla pagina, e mentre sei catturato ad libitum nella lettura pare quasi di dialogare con le loro fisime – come quando non puoi evitare di provare un moto di simpatia istintivo per il poeta diciassettene Diodoro quando riceve la telefonata dal gruppo di sovversivi surrealisti che lo invitano a Parigi.
« No, Diodoro. Era lei che stavamo chiamando. Sapevamo che se fosse passato vicino a un telefono pubblico che suonava, lei avrebbe risposto. Ovviamente, abbiamo chiamato molti telefoni pubblici. Tutti quelli che erano lungo i quattro o cinque percorsi che lei poteva seguire stasera. »
Sepolcri di Cowboy è solo una piccola parte del mondo di scritti che ci ha lasciato Roberto Bolaño, un’opera-matrioska che più continui ad aprire più pare contenere bamboline minuscole al suo interno – così il corpo stesso di Bolaño somiglia ora a quello di un cadavere su cui si compia una continua vivisezione, e più passa il tempo più arrivano libri nelle librerie, e raccogliamo stralci e appunti e poesie e pensieri su cui scavare e indagare. È come se dal grande successo di 2666 si fosse azionato un furore alla rovescia alla ricerca dell’intera opera del cileno, e alla scoperta di quelle che qualche tempo fa Sanders I. Bernstein sul New Yorker ha definito le vite multiple di Bolaño. Bernstein ne ha distinte almeno quattro: la sua vita vera; quella che ha raccontato agli altri; la vita che ha vissuto nelle poesie e nei romanzi; e la vita postuma come fenomeno letterario mondiale, arrivata dopo la morte – e di cui poteva appena sospettare. “Poco dopo nacqui io, il poeta di famiglia” – scrive Bolaño nei Sepolcri, l’imbecille di famiglia – continua, facendoci tornare alla mente certe parole di Sartre e Calvino. Non è un caso che in questa ossessione per la scrittura ritroviamo una parte di quella sua irregolare innocenza, la battaglia privata e pubblica che Bolaño ha combattuto a colpi di parole per un’intera vita. E se anche se le sue vite multiple non coincidessero una con l’altra, il vero chiodo fisso e la somma monomania restano a futura memoria a caratteri stampati sopra le sue pagine. Fuoriescono magicamente da lì per devastarci l’anima con scariche di sincerità.
Qui a raccattare postumi
“Dopo una lunga malattia, Roberto Bolaño morì il 14 luglio 2003. Quello stesso giorno, più o meno a mezzanotte, diventò immortale”, a scrivere queste parole è lo scrittore messicano Jorge Volpi in un saggio recentemente tradotto in italiano nel volume Bolaño selvaggio (Miraggi edizioni), uno di quei libri per appassionati che raccolgono scritti e saggi intorno al paesaggio bolañiano: tra gli altri, ne scrivono Juan Villoro, Rodrigo Fresán e Enrique Vila-Matas. La pubblicazione di volumi del genere (che pure vanno a caccia di epigoni come detective selvaggi) è un’altra testimonianza che il passaggio di Bolaño nel mondo delle carte scritte non può aver lasciato indiffente in particolare la letteratura in lingua spagnola – tant’è che nella nota introduttiva al libro si parla dell’opera di Bolaño come “la fronteria più remota e il sentiero più avventuroso” per le possibilità di quella lingua e quella letteratura. Dal canto suo Bolaño (che parlava della lingua come di una patria) pareva già rivolgersi al futuro ancora prima che questo si materializzasse – forse inseguendo quella vocazione poetica che lo portò a schiantarsi con la vita per fare a botte e a caccia di parole.
E in fondo Roberto Bolaño ce lo immaginiamo felice mentre scrive, a Blanes come dappertutto. Felice di regalare al suo lettore la letteratura che aveva in mente, con le sue pagine vive, i suoi moti e riferimenti, le sue parole e i suoi personaggi incantati e disincantati assieme – lontani dalle favole sudamericane e dalle cronache sezionate di emozioni. Sfogliando le sue pagine ci riesce di immergerci nell’esperienza globale dell’essere umano, dall’indagine del Male ai grandi entusiasmi dell’adolescenza fino alle piccole stramberie di personaggi che rappresentano l’incredibile variazione che è la collezione umana di cui facciamo parte e per cui gridiamo. Non a caso Nicola Lagioia qualche tempo fa ha definito Bolaño un “riapritore di giochi” per il XXI secolo, e se ne ha la sensazione in particolare leggendo 2666. Calarsi nel mondo di 2666 è un’apnea emotiva, per un po’ siamo sequestrati nel lì-e-ora alla pazza ricerca di Arcimboldi – e vagando da una parte all’altra del globo torniamo “a casa” con la sensazione fisica che questo oggetto strano ci abbia lasciato addosso un’atmosfera diversa dal solito. Sì, certe pagine sono un diluvio che lasciano addosso un’atmosfera. E allora qui, a raccattare quei postumi con le immancabili dediche a Lautaro e Alexandria (“La mia unica patria sono i miei figli”) che di tanto in tanto vengono fuori, si sta discretamente bene. Anche se ovviamente, leggere Bolaño non ci dà nessun vantaggio – solamente gioia e gratitudine.
« Mia madre leggeva romanzi d’amore che arrivavano per posta da Santiago e leggeva anche riviste esoteriche. Mio padre leggeva solo romanzi di cowboy. Io leggevo Nicanor Parra e credevo che questo mi desse un vantaggio. Ovviamente, non mi dava nessun vantaggio. » (Sepolcri di Cowboy)