“La poesía sale de mi boca / a todo tranco de gerundio
a todo flujo de agua potable / a todo virus luminoso
a toda capacidad de contagio”
– Mario Santiago Papasquiaro
A proposito della scrittura a capofitto e notturna di Roberto Bolaño, l’argentino Rodrigo Fresán ha scritto che “pochi scrittori contemporanei sono riusciti a contagiare il lettore invitandolo all’avventura di vivere un libro mentre lo si legge come se lo si scrivesse”. Fresán parla di una lettura ipnotica, una specie di trance. Non sorprende che l’effetto di contagio abbia dato vita pure a un ardito esercito di detective selvaggi del Bolañesque, questo sterminato misterioso mondo con la sua propria prosa e mitologia. Quando Le plus secrète mémoire des hommes (La più recondita memoria degli uomini, in italiano) di Mohamed Mbougar Sarr ha vinto il premio Goncourt, alcuni giornali hanno urlato alla devozione dello scrittore senegalese nei confronti di Roberto Bolaño. Non ci ho davvero creduto, ho pensato fosse la solita campagna promozionale. A leggerlo però bisogna ricredersi: Sarr non è un devoto di Bolaño, ma una specie di posseduto, uno di quelli a cui Bolaño deve avere cambiato la vita e per effetto se n’è ossessionato. Il romanzo è contagiato dalle atmosfere dei Detective Selvaggi: il protagonista Diégane Latys Faye, la sua banda di scrittori in erba, il culto di un misterioso scrittore africano, Elimane, che nel 1938 ha pubblicato un libro introvabile prima di scomparire nel nulla e far perdere le proprie tracce. La prima parte del romanzo è un continuo processo di affascinanti reminiscenze, della gioventù poetica dei detective selvaggi, della ricerca di Cesarea o dell’Arcimboldi di 2666, e persino della madre della poesia messicana, l’Auxilio di Amuleto che a tratti si incarna nel personaggio di Siga D.
Naturalmente non è tutto qui. Nel romanzo di Sarr c’è anche il senso di inadeguatezza di un giovane scrittore africano a vivere in Europa, dove i lettori di autori africani sono portati a cercare l’esotico del continente, e se tutto va bene c’è il rischio di diventare una specie di simbolo da esporre. Diégane è un tipo di ribelle che vuole emanciparsi da quello che definisce il “ghetto africano” della letteratura, per appartenere a quella grande patria che sono i libri e la letteratura di cui parlava proprio Bolaño. Per un lettore dello scrittore cileno è facile riconoscere gli echi del vasto universo letterario bolañiano, la sua università sconosciuta e di strada – facile orientarsi nella sua foresta di simboli e di tipi umani, ma a starci troppo addosso ci si possono pure scorticare le mani. Nella prima parte di Le plus secrète è forte l’impressione dello scrittore cileno, addirittura dirompente per come è costruita la storia: una banda di giovani detective-scrittori alla caccia del loro speciale idolo e scrittore perduto, un’indagine sulla scrittura, una storia letteraria, una finzione in cui si intrecciano punti di vista, citazioni, dialoghi, estrapolazioni di brani di critici, fantasmi di personaggi che ti sembra di avere già incontrato. C’è una popolazione sommersa con cui Sarr sembra mettersi come in comunicazione magica, in alcuni momenti può essere quasi irritante, ma la storia è anche una bella riflessione con un significato sulle proprie radici, e il fatto che un trentunenne abbia scritto un romanzo così ambizioso, audace, letterario, ti può fare solo applaudire. Ci sono dei nodi luminosi da uomo braccato dalla scrittura, si sente l’ossessione letteraria di Sarr, si sentono tutte le interferenze di una mente preda dei suoi fantasmi, e così diventa un simpatico detective selvaggio lui stesso. Un detective che non sta cercando Elimane o Cesarea, ma le parole, come le parole che cercava Arturo Belano nel suo esilio spagnolo.
“C’è una letteratura per quando ti annoi. Abbondante. C’è una letteratura per quando sei calmo. La letteratura migliore, credo. C’è anche una letteratura per quando sei triste. E c’è una letteratura per quando sei allegro. C’è una letteratura per quando sei avido di conoscenza. E c’è una letteratura per quando sei disperato. Quest’ultima è quella che volevano fare Ulises Lima e Belano.” – I Detective Selvaggi
Nel 1998 con una lettera d’amore alla sua generazione – chiamata i Detective Selvaggi – Roberto Bolaño vinse il premio Herralde. Da allora il libro è passato di mano in mano, bocca in bocca, per lingue diverse, dando vita a un piccolo esercito di detective selvaggi, e a un continuo gioco di interferenze e di lampi e apparizioni. Un giorno apri un libro a caso, Soldati di Salamina di Javier Cercas, ed ecco che tra le pagine spunta la figura irrequieta dello scrittore cileno sulle spiagge catalane di Blanes. Un altro giorno è un altro libro, un verso, un titolo. Alle volte i giornali vogliono venderti i rimandi, ma bisogna resistere. Un romanzo come i Detective Selvaggi resterà sempre un libro unico, da rilettura continua, emerso da qualcosa di più indecifrabile e oscuro dell’autore stesso, da un gioco sul mondo, da un oblio di ricordi, da frammenti come scatti fotografici, dai suoi personaggi liberi e immersi di poesia e surrealismo, da antichi poemi d’amore e giovani canti per desperados.
Il nostro tempo è disordine e allora i Detective Selvaggi è un’opera allucinante, oculare, che oscilla tra caos e ricordo, che scorre in senso verticale e orizzontale, voracemente interiore e estroversa all’esterno tanto da distorcere la realtà, un’opera solare e noir che emerge da un superamento di limite, limiti di tempo spazio e realtà che solo la letteratura può osare di superare. Come Santa Teresa è la città che supera il limite tra realtà e finzione, così i Detective Selvaggi viaggiano oltre frontiera, là dove vita e letteratura si incontrano in un mondo nuovo e sospeso. In certi momenti il romanzo sembra preconizzare pure il futuro di 2666, e il futuro delle opere di Bolaño, perché l’universo dello scrittore cileno è come un immenso mondo parallelo che si parla a distanza e si interroga sulla gioventù poetica, sulla banalità del male, sull’esilio, sulla frattura delle terre sudamericane, sulla scrittura come spazio di salvezza e memoria, un mondo parallelo che vive dentro un’unica grande patria letteraria che raccoglie tutti i suoi ossessi. Gente che crede che Cesarea Tinajero esista davvero e parli dal futuro; che Auxilio sia una profetessa al pari di Cassandra. Sarà per questo che Fresán parla di lettori contagiati, che Sarr si è lasciato possedere, e che più passa il tempo più i Detective diventa come un grande poema epico a cui tornare di tanto in tanto per setacciare frammenti, parole, sensazioni, avventure. I Detective Selvaggi è epica. Un’Odissea da ventunesimo secolo da mettersi nella tasca della giacca per sbandare dentro le strade senza trovare mai l’Itaca.