a cura di Stefano Marino
Tra Roberto Bolaño e Bret Easton Ellis ci sono undici anni di differenza. Undici anni, dal 1953 al 1964, che hanno contribuito a far sì che i due scrittori avessero come riferimento principale per la propria formazione due decenni diversi: gli anni’70, per il cileno; gli ’80, per Ellis. E, nello specifico, gli anni ’70 sudamericani e gli anni ’80 americani. Più che epoche, sembrano quasi realtà diverse, universi paralleli capaci di far da fertilizzante per la formazione culturale di due ragazzi estremamente ricettivi.
Il messicano d’adozione Bolaño, nel 1973, guardava alla sua terra madre con rinnovato entusiasmo: erano gli anni di Allende e il richiamo del Cile era troppo forte per il giovane avventuriero selvaggio. Così forte che, quell’anno, decise di tornare nella terra natia. E, come in un romanzo degli equivoci, spolverato da quel po’ di realismo magico che, volenti o nolenti, scorre nelle vene di chi nasce in un certo continente, il ventenne Roberto arrivò in Cile a pochi giorni dal colpo di stato di Pinochet. Quel 11 settembre 1973, la violenza investì in pieno Bolaño a cui toccò però una sorte migliore di quella di molti altri cileni: venne imprigionato e dopo otto giorni liberato da alcune guardie che riconobbero in lui un loro compagno di studi. Per poco, Roberto Bolaño evitò di far parte di quella generazione perduta sudamericana falcidiata come se fosse vittima di un’epidemia da ciò che successe prevalentemente in Argentina e Cile in quegli anni.
In America, una decina di anni dopo, Bret Easton Ellis si apprestava a diventare la giovane novità più deflagrante del panorama letterario americano. A ventuno anni, nel 1985, esordì con Meno di Zero. Un romanzo iniziato già anni prima e figlio di quell’America edonista che improvvisamente sembrava risvegliarsi e specchiarsi nei gloriosi anni ’80. Un’America che aveva l’ex divo del cinema Ronald Reagan come presidente e vedeva in Donald Trump uno dei suoi figli prediletti. L’imperativo era uno: esserci. Ma non bastava semplicemente far presenza. No, quell’esserci doveva essere lastricato d’oro. E Bret Easton Ellis, annoiato post adolescente, alto borghese, era stufo di presenzialismi.
È quindi la presenza a essere al centro di tutto, che si tratti di una sparizione, di desaparecidos, o di un presenzialismo estremo.
Bolaño e Ellis. Infrarealismo e Post-minimalismo. Anni ’70 e anni ’80. Sudamerica e America. Le differenze di approccio fra questi due scrittori sono così nette da non necessitare neppure di ulteriori analisi. Due universi che sembrano non avere punti in comune, e forse è proprio così. Se c’è però una cosa chiara nel loro modo di fare letteratura è il messaggio, l’intento, ciò che vogliono denunciare o anche solo porre sotto una lente di ingrandimento. Entrambi, immersi nei rispettivi momenti storici e sociali, hanno saputo infarcire la loro narrativa di richiami a tematiche che sentivano particolarmente vicine.
L’esempio lampante di questo discorso lo si può riscontrare in due libri: Amuleto, di Bolaño – non la sua opera più famosa ma comunque un romanzo di grande valore – e Meno di Zero, di Ellis, il libro che lo fece conoscere al mondo. In questi due romanzi, appartenenti a sfere letterarie diverse, i due scrittori mettono i loro protagonisti in una situazione pressoché identica: un ragazzo, a causa dei debiti contratti, ha venduto il proprio corpo a un protettore e ora non gli rimane altro da fare che chiedere aiuto per uscire da questa situazione. Tutto qui. Lineare e torbido.
In Meno di Zero è Clay, il protagonista, che si trova a dover fronteggiare il dramma di Julian. Il motore di tutto non è una questione morale ma semplicemente economica: Julian chiede un prestito a Clay. Clay accetta senza far storie né chiedere altro. “Perché sei un amico?”, gli risponde, quando Julian gli chiederà il motivo per cui abbia accettato così di buon grado di prestargli dei soldi. Proprio così -“perché sei un amico?”- col punto interrogativo. E in quella domanda c’è tutto il nichilismo e l’assenza di sentimenti che Ellis vuole far emergere. Clay, per riavere indietro i soldi, accompagna Julian da Finn, il protettore. Finn convince il suo schiavo che l’unico modo per ottenere la cifra dovuta a Clay sia quello di offrire ancora delle prestazioni a dei clienti ma questa volta con lo stesso Clay ad assistere, di modo che la tariffa salga e il debito nei confronti dell’amico possa essere pagato più facilmente. A quel punto Clay realizza che come motore delle sue azioni non vi è nessun impeto di compassione, umanità o generosità nei confronti di Julian: c’è solo la voglia di essere testimone dello schifo. Guardarlo. Presenziare. Per vedere “se cose come questa possono veramente succedere (…). Capisco che i soldi non c’entrano. E che quello che veramente c’entra è che voglio vedere il peggio”.
È il presenzialismo edonistico portato all’esasperazione. Clay deve esserci, marchiare con la sua presenza un atto sordido che suscita in lui la stessa curiosità che si può provare innanzi a un animale esotico. La peculiarità dello svolgersi di questa parte del romanzo è che Julian chiede aiuto a Clay: ciò porta istintivamente il lettore a pensare che Clay rivestirà una parte attiva nelle azioni che seguiranno. Ma non è così: Clay è passivo, apatico, freddo. Nulla lo scuote. Sembra solo che voglia registrare una situazione nuova nel suo campionario di bassezze umane, figlie della Los Angeles degli anni ’80 e, per farlo, segue Julian in quel vortice vizioso con un fare quasi documentaristico o come se fosse uno spettro, sempre in secondo piano, intangibile, destinato a sparire, in linea con le due parole che Ellis farà riecheggiare in tutto il romanzo come se fossero la sua soluzione per sopravvivere all’America degli anni’80: scomparire qui.
A Roberto Bolaño, invece, non sono mai interessate apatia e passività nel tratteggiare i suoi personaggi. In Amuleto, Arturo Belano – alter ego dello scrittore – deve salvare Ernesto San Epifanio dalle grinfie del Re dei Finocchi, un personaggio che a noi italiani riporta alla mente il Re dei Topi, narrato da Fabrizio De André in Sally. Al loro fianco c’è Auxilio Lacouture, la madre della poesia messicana che avrà il ruolo che in Meno di Zero appartiene a Clay. Lei documenterà l’accaduto, ne prenderà nota. Ma mentre Clay lo farà sempre come passivo testimone degli eventi, Auxilio, armata di coltello, è pronta a scendere in guerra per salvare San Epifanio. Ernesto San Epifanio, oramai appartiene al re, gli appartiene “corpo e anima”. E qui, la prima grande differenza con Ellis: c’è un’anima.
E oltre all’anima c’è anche un altro sentimento che ribolle sotto la superficie della narrazione: la paura. San Epifanio è terrorizzato ma sa che può contare sul coraggio di Belano, il cileno, il ragazzo senza paura, sopravvissuto al colpo di stato di Pinochet: “perché tu vieni dal Cile, tutto quello che il Re mi può fare, tu l’hai già visto, moltiplicato per cento o centomila”. Arturo Belano viene trattato come un veterano elevato al ruolo di amuleto protettore di San Epifanio. Belano sta al gioco, potendo contare su una sorta di mitologia ricamata sulla sua persona, grazie ai racconti ingigantiti delle avventure cilene del poeta che Auxilio Lacouture aveva fatto ai giovani messicani. Belano sa che deve recitare una parte e per amor di letteratura è pronto a morire pur di non tradirla.
Una volta arrivati all’Hotel Trifoglio, la base del Re dei Finocchi, la scena che si presenta ai loro occhi è di degrado totale: c’è il Re, coi suoi capelli castani “che in Messico non saprò mai se sul serio o per scherzo chiamano biondo”; un branco di tipici scagnozzi che contano soldi; il tesoriere del regno; un uomo rantolante su un letto, tenuto prigioniero.
Il Re e i tre improbabili avventurieri si fronteggiano. Auxilio è armata di coltello. Arturo estrae la sua arma migliore: la letteratura. E inizia a parlare, Arturo Belano. Fa letteratura. Parla della morte. Dice al Re che lui non ha nessuna competenza sulla morte. E Auxilio, fedelmente, riporta il miracolo a cui sta assistendo: “sta facendo letteratura, sta raccontando storie, è tutto falso, e allora (…) mi disse: dammelo, e tese il palmo della mano destra”. Già, perché la letteratura è la più potente delle armi, ma se aiutata da un coltello è ancora più incisiva. Così, Belano, dopo aver stordito di parole gli avversari, brandisce il suo coltello e ordina. Ordina di liberare dal vincolo San Epifanio e di lasciare andare il povero sventurato che rantola nel letto. E tutti, in quella stanza, obbediscono al giovane poeta cileno.
Questa era l’idea di Bolaño: con la letteratura si poteva salvare la generazione latinoamericana falcidiata da anni di sanguinose dittature. Bolaño vede la speranza di salvare tutti, anche quelli che non ci sono più; con la letteratura i limiti non esistono ed è il solo strumento che possa circoscrivere in territori di pace un Sud America grondante vittime. Per Ellis, invece, la speranza non esiste. E forse è fin inutile sperare. L’unica cosa a cui si può tendere in modo passivo è la sparizione, vero e proprio rimedio contro un’America edonista che richiedeva una scelta ben precisa: esserci o sparire lentamente mentre si era testimoni dell’autodistruzione di una nazione.
Più che due modi di affrontare le realtà che vivevano, Ellis e Bolaño hanno trovato vie diverse per generare una letteratura che di quelle realtà era intrisa. Non pretendevano di dare risposte ai problemi dei rispettivi continenti. Semplicemente, usavano la stessa arma per affrontare le grandi questioni generazionali che hanno marchiato a fuoco una quantità infinita di giovani: la letteratura; nient’altro che la letteratura.