Troppo facile. Troppo facile e al contempo troppo difficile raccontare Roberto Baggio, all’anagrafe ex-calciatore di freschi 53 anni, ma nel sentimento collettivo molto di più. Il “Divin Codino” ha assunto nel tempo un’aurea mitologica, che travalica il tempo, lo spazio e la mera conoscenza sportiva. Avete presente la vecchietta del film Chiedimi se sono felice di Aldo, Giovanni e Giacomo? Quella che, interpellata sul completamento de Il teorema di Marco Ferradini, risponde con sicumera “Fuori dal letto nessuna pietà”? Ecco se, in un qualsiasi supermercato, si interpellasse una qualsiasi vecchietta su Baggio, lei saprebbe rispondere senza esitazione con un episodio del mito: “Eh, quel rigore a Pasadena”, “Peccato per quelle ginocchia”, “Se non fosse passata per tanto così dal palo”, “Ah, quella stagione al Bologna”… Perché tutti conoscono almeno un episodio del mito di Baggio. E per questo è tanto più difficile raccontarlo.
L’impresa, per fortuna, non ha spaventato Stefano Piri, che esce oggi in libreria con Roberto Baggio. Avevo solo un pensiero, edito da 66thand2nd nella collana “Vite Inattese”. Una biografia che sì ripercorre la carriera del più celebre numero 10 italiano, ma che in realtà rappresenta qualcosa di più della semplice stesura del “ciclo di Baggio”. Il libro di Piri è un’istantanea di un intero periodo storico italiano, e forse mondiale: lo scavallo tra gli anni Novanta e i Duemila, l’ultimo valzer compiuto dall’Occidente prima del tracollo finanziario. Il periodo dominato dalla gadgettistica di plastica monouso, delle felpe coloratissime dalla vestibilità over, dei grandi affaristi/speculatori che ripuliscono il loro capitale nel calciomercato, dell’Italia calamita di campioni al loro apogeo e dominatrice delle coppe europee. E di un calcio che si appresta a compiere la sua definitiva trasformazione da fenomeno di massa a fenomeno mediatico.
Forse è per questo che Roberto Baggio è così amato. Volendo, quello di Piri potrebbe anche essere comparato a un trattatello filosofico in cui si discute sul perché un giocatore – certo straordinario ma né particolarmente simpatico, estroso o, paradossalmente, vincente – sia assunto a tali livelli di iconicità. La risposta potrebbe essere proprio questa: Roberto Baggio è stato l’anello di passaggio, il collegamento tra due epoche, una passata, vissuta come nostalgicamente dorata, l’altra attuale e percepita come squallidamente vuota. Baggio è stato, anche per la sua posizione in campo, un retaggio difficilmente assimilabile nella contemporaneità: né trequartista né prima punta, né goleador cinico né assistman altruistico, ma tutte queste cose insieme, tenute unite da nient’altro che il suo genio. Non è stato bandiera di nessuna squadra se non della Nazionale, con la quale però non ha sollevato trofei. È stato amato da tutti, ma mai con l’esclusività feroce di un Totti, un Maradona o un Del Piero. È stato colui che, con il suo ritiro, ha in qualche modo segnato la fine collettiva della spensierata infanzia italiana, lasciando che ce ne accorgessimo solo dopo, quando tutto era ormai finito.
Eppure, nonostante il suo carattere schivo, Baggio è stato, mentre ancora giocava, la prima icona mondiale ante Instagram, più di tanti suoi colleghi – Best, Cantona, ecc. – che la loro glorificazione l’avrebbero conosciuta solo dopo il ritiro. Per qualche arcano motivo, misterioso come un atto di fede, il passaggio di Baggio sui campi da calcio è stato accolto fin da subito con toni messianici, o perlomeno con la consapevolezza di star assistendo a qualcosa di irripetibile. E la glorificazione è stata immediata. Tra i tanti episodi che Piri ha estratto dalle cronache con pazienza certosina, quello che più resta impresso è il concerto di Madonna a Roma nell’autunno 1990. Concerto già di per sé memorabile per l’opposizione del Vaticano tutto e dell’allora Ministro dell’Istruzione, un certo Sergio Mattarella che da allora di strada politica ne ha macinata. Ma reso definitivamente indimenticabile dal look scelto dalla Material Girl: una maglia di Italia ’90 con il 15 sulla schiena, quella indossata pochi mesi prima da Baggio durante le notti magiche. Un endorsement definitivo, che proiettò un timido ragazzo nativo di Caldogno nell’empireo delle star durante il periodo più glamour dell’umanità.
Raccontare Baggio è troppo facile e al contempo troppo difficile. È troppo grande il rischio di cadere nella banalità, di finire per citare quel perfetto epitaffio coniato da un altro apostolo del Divin Codino, Cesare Cremonini: “da quando Baggio non gioca più, non è più domenica”. Invece, scegliendo la strada di una rilettura delicata, percorsa da un filo di ironia che nasconde la profonda partecipazione emotiva, Piri ci è riuscito. Ed è riuscito, ciliegina sulla torta, a elaborare la definizione più razionalmente corretta ed irrazionalmente bella su ciò che chiunque ha provato guardando Baggio giocare a pallone: “Vederlo giocare è come aspettare una stella cadente la notte di San Lorenzo”.