Robert Glasper — musica per tempi interessanti

Magari il nome di Robert Glasper non vi dirà nulla, e non c’è da stupirsene: la comunità Pitchforkiana di cui vi abbiamo già parlato in lungo e in largo – quella che ha stabilito come il jazz oggi sia di nuovo cool – gli ha da sempre preferito la cometa hipster/esoterica di Kamasi Washington e il sound un po’ ruffiano di Thundercat. Ma, se siete amanti della musica black tout-court, rimane difficile credere che non abbiate mai incrociato il piano di Glasper, uno che ha, in ordine sparso: (i) inciso jazz vero , di quello che piace a Wynton Marsalis (con un occhio a J Dilla) (ii) ha accompagnato Kendrick, Mos Def, Badu, Kanye, Common (fin dentro alla Casa Bianca, in altri tempi) (iii) lavorato al sottovalutato e boicottato biopic su Miles Davis di Don Cheadle (iv) vinto tre grammy con i suoi Experiment, un progetto ispirato al sound di Roy Ayers e totalmente aperto ai contributi di altri artisti, se non completamente fondato su di essi.

 

La serata del Barbican, in occasione dell’EFG Jazz Festival, viene venduta come un evento speciale, per celebrare i 25 anni del festival. Ora, non bisogna aver letto Zizek per sapere che è proprio in queste occasioni, appunto, speciali, che bisogna essere particolarmente scettici. Per una volta però, sempre citando l’autore della Pervert’s Guide to Cinema (un must, in questi giorni di caccia al Weinstein), i tempi sembrano essere realmente interessanti. Il pre-show è affidato a un dj, scelta inusuale per un auditorium serioso come quello del Barbican, con una selecta che va da D’Angelo agli A Tribe Called Quest. Ma quando Glasper si siede al palco accompagnato da contrabbasso e batteria, annunciando che stasera suonerà “musica di artisti che ama”, il dj non smette di suonare.

Con totale naturalezza, invece, si inserisce nelle dinamiche del trio, aggiungendo frammenti della voce di Prince, interviste, rumore bianco a una fantastica versione di Sign O’ The Times. Questo è jazz vivo, contemporaneo: la batteria sincopata e metronomica, quasi Drum’N’Bass, e sopra gli accordi aperti, arieggiati di Glasper, memori della lezione di Ahmad Jamal. E un repertorio che potremmo chiamare New American Songbook. Intendiamoci, non il polveroso Sinatra che ripropone a intervalli regolari Bob Dylan, né la patinata versione adult-oriented di Rod Stewart: è un’accozzaglia postmoderna, colta ma ironica, in cui trovano spazio i Radiohead e Cindy Lauper, i Nirvana e Barry Manilow.

Dopo una mezz’ora di jazz duro e puro, ecco il cambio palco, con una band rinnovata e ampliata, e l’annuncio di Glasper: il resto della serata sarà dedicato al repertorio di Stevie Wonder. Ora, la carriera di Wonder è uno dei grandi misteri dell’umanità, difficile da approcciare senza uscirne malridotti. Come avvicinare un uomo che tra il 1970 e il 1979 ha pubblicato, uno dopo l’altro, quattro tra i più begli album di tutti i tempi e che, tra il 1980 e oggi, ha dato vita ad alcune delle più fastidiose creazioni che la mente umana abbia mai partorito (Part-Time Lover, I Just Called To Say I Love You, The Lady in Red…)? Inoltre, bisogna evitare i classici ormai inutilizzabili: Signed, Sealed, Delivered… ha subito i maltrattamenti dei Blue, Superstition è ormai “funk da cerimonia”, Isn’t She Lovely la theme song della Litizzetto (à la John Cena).

La preoccupazione cresce quando Glasper decide di iniziare il suo viaggio nel corpus Wonderiano partendo con la ballata ad alto tasso glicemico Overjoyed (da In Square Circle, 1985), in cui i miagolii dei tre coristi la fanno da padrone come nemmeno a X-Factor. Fortunatamente, è solo una defaillance: Robert Glasper, come farebbe ogni vero amante di Stevie Wonder, si concentra da lì in poi sui pezzi tratti dai suoi album migliori, quelli degli anni ’70, e, in particolar modo, sulle tracce meno note. Si comincia con la ballata Superwoman, tratta da Music Of My Mind (1972), cantata da Vula delle LaSharVu. Subito dopo, sale sul palco il sodale storico di Glasper: Bilal. Un altro sconosciuto eccellente, forse uno dei più grandi vocalist del nostro tempo, che nonostante l’abbandono delle major è apparso sugli album più significativi del decennio, da Beyoncé a Kendrick.

A Bilal toccano il funk tirato di Too High (Innervisions, 1973), impreziosito da un assolo letale di armonica degno di Wonder stesso, e quello sghembo di You’ve Got It Bad Girl (Talkin’ Book, 1974), in cui finalmente Glasper si lascia andare al piano. Le jam sono aperte a ogni sviluppo, dall’inizio alla fine, ed è giusto così se ad ancorare la sezione ritmica ci pensano George “Spanky” McCurdy (Lady Gaga, Kanye West) e Derrick Hodge (chiunque vi venga in mente, ci ha suonato). E lo stesso Hodge si prende la scena per un assolo di basso che da solo ridà credibilità a My Cheri Amour, pezzo che, come avrete dedotto dal titolo, proveniente dritto dritto dagli anni ’80 Wonderiani. Il finale è tutto per Laura Mvula, un’altra stella nascente del panorama R’n’B, stavolta UK (ascoltatevi l’ultimo The Dreaming Room, se non ci credete), che affronta, seduta al piano accanto a Glasper, una delle ballate più belle, e forse meno positive, di Wonder: Visions (Innervisions, 1973).

È stato interessante vedere un jazzista contemporaneo, nel senso più vero del termine, qual è Robert Glasper, alle prese con un’eredità artistica impegnativa e variegata come quella di Stevie Wonder. E farlo senza concessioni ai crowd pleasers, senza scadere nel funk torbido di facile impatto, ma concentrandosi invece sui pezzi più elaborati, che trasudano le capacità compositive di un artista che i millennials hanno liquidato troppo in fretta, come un Phil Collins qualsiasi. Glasper, insomma, ritrova il jazz in fondo alle innervisions di Stevie Wonder, restituendogli, possibilmente, il posto che gli spetta nel gotha dell’(ipotetica) Età di Pitchfork che ci si para davanti.

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