Era ottobre inoltrato ed Elena si sentiva davvero un po’ a New York. Non che c’entrasse la nebbia mediopadana che da una vita gli caratterizzava il panorama, neanche per l’accenno di neve che era venuta giù quella sera, non che il ruscello che attraversava il paese potesse essere paragonato alla bestialità dell’Hudson. È che poi, a New York, non c’era nemmeno mai stata. Era bastato soffermarsi su una copertina di un’edizione economica, un martedì come un altro nella libreria del centro, scegliere un autore da sempre conosciuto ma mai davvero approfondito e una influenza capitata al momento giusto per perdersi nel distretto americano. Ora, dalla finestra di camera sua, vedeva il piombo del Bronx mescolarsi alla rugiada della campagna, quello che doveva essere l’Upper East Side inoltrarsi sulle superfici delle case coloniche e dargli una patina quantomai borghese e arrogante. E, così, era stato con i personaggi. Era assorbita da un vortice oscuro in cui soltanto alcuni libri, la maggior parte dei quali non scopriamo mai se non per caso, riescono a trascinarti. E così Miles “Musolungo” Heller era una parte di Elena, nella sua sofferenza radicata nel passato ma senza la stessa forza di tagliare i ponti con tutto, come le perversioni e le fragilità di Ellen Brice, senza la stessa capacità di sfogarsi nell’arte, trovava in sé un pizzico dell’attrazione di Bing Nathan e della paura di Alice Bergstrom. O, probabilmente, voleva che ci fossero. Non stava fuggendo nella letteratura per dimenticare chi era, per quello ci sarebbe stato qualcosa di meglio, o per autopsicanalizzarsi perché non poteva permettersi uno strizzacervelli capace di estrarre dal cappello il coniglietto bianco di tutte le sue paure, più che altro ci si era imbattuta ed era stato naturale accostarcisi. La sua era una vita qualunque, come quelle raccontate nel libro, ma abbastanza qualunque per essere quella di Elena, le altre non poteva valutarle perché non sono un romanzo. Il suo matrimonio era forte, come forte era la tempesta quando tutto era cominciato, e ci aveva scaricato dentro la maggior parte di sé, quello che il lavoro non le aveva ancora sottratto, e anche se non aveva sentito crescere qualcosa dentro alla sua pancia questo non voleva dire che fosse meno “donna”, anche se si avvicinava tremendamente ai trenta. Dopotutto anche Alice sentiva gli stessi istinti. C’era qualcosa nel romanzo che l’aveva costretta ad immergercisi completamente, forse le vite normali, forse il fatto che non c’era nessun eroe maledetto o un Grande Gatsby da invidiare, o una storia terribilmente romantica che faceva sentire ridicola la sua, nata fra i banchi di scuola. Forse era perché leggere quel romanzo, entrando così tanto nell’intimità di una persona, permetteva di farle capire quanto tutto sarebbe più facile se avesse potuto conoscere ogni pensiero delle persone che la circondavano, sarebbe stato presuntuoso non ammettere la malata curiosità che la spingeva a sostenere uno sguardo. E allora se l’era divorato tutto, da cima a fondo e quando era arrivata alle ultime venti pagine iniziava a sentirsi triste e infelice nel dover abbandonare quella realtà letteraria che le aveva riempito le ore, ma non era il confronto con se stessa che la impauriva. La troppa avarizia nel consumare le pagine, nel non somministrarsele ogni giorno come una medicina, l’aveva costretta a quella semi eccitazione che ti compare quando superi le prime cento pagine e che ti consuma quando arrivi in fondo e riesci a vedere attraverso al foglio di carta i titoli di coda o il sommario. Il problema è che di libri così te ne capitano pochi nella vita, o quasi nessuno, e quelli che piacciono agli altri raramente ti dicono le stesse cose. Era l’essenza di un rapporto carnale, quello che stavano intavolando Elena e il suo libro, senza sapere quanto l’uno provasse piacere nell’utilizzare l’altro. La verità era che si era dimenticata dell’influenza che ormai le stava passando e questo voleva dire riniziare le corse di cui ogni quotidianità si compone, nell’era moderna. E non ci sarebbe stata più New York ma solo la sua cittadina mediopadana, e il campo fuori di casa non avrebbe avuto più lo stesso fascino sinistro del Bronx. Ma era stato bello assentarsi per quei giorni oltreoceano e condividere con Miles gli stessi dolori e la stessa passione di Bing per le anticaglie. Non aveva scavato dentro di sé come alcuni libri pretendono di fare, l’empatia con i personaggi non era forse nemmeno stata prevista dal suo autore, non le era venuta voglia di scrivere né di trasferirsi a New York. Aveva solo bisogno di sentirsi in un posto diverso per un attimo, calandosi in un mondo così realistico da rimanere un romanzo, immergersi nelle esperienze di qualcuno così sincere perché impresse da qualcun altro, sostituirsi per un attimo a una eventuale entità creatrice che governa le cose, la stessa di uno scrittore nell’immaginarsi diecimila volti diversi per raccontare soltanto il sentimento provato nel carpire uno sguardo su una metropolitana. Era la costante dei buoni romanzi che aveva letto, essere costretta a respirare insieme ai personaggi, come se all’ora del thè avrebbe trovato Mary-Lee Swann, tornata da una tournée cinematografica, ad aspettarla e non suo marito che stanco rincasava dal lavoro. E mentre il cumulo di pagine stava lentamente assottigliandosi e il finale le stava sconvolgendo ogni certezza, ecco lì arrivare una lacrima. Un pianto felice e quanto mai ottimista, lo stesso che viene dalla certezza che come mai saprà dove sia finito poi Miles, se sarà riuscito a sposare Pilar e a risolvere quel brutto fatto, o come sia andata a finire la storia degli altri inquilini, mai saprà come le vite degli altri procedono senza che lei possa esserne partecipe. Elena si è resa conto che le persone cambiano, senza che lei possa dargli un motivo valido, ma proprio come un romanzo ogni storia segue le sue ragioni e i suoi motivi, e il resto è lasciato alla poesia. Ma la vita era altrove e fra le sue mani, e ora poteva ritornare, davvero, a Sunset Park.