Probabilmente vi stupireste nel sapere che i macaron, le famose meringhe farcite simbolo della Francia, sono in realtà originari di Venezia, dove venivano chiamati “maccaroni” attorno al 1500. Allo stesso modo, sarete sorpresi nel sapere che lo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges ha scritto 17 haiku, gli ermetici componimenti poetici formati da tre versi della tradizione giapponese. Ciò che, però, dovrebbe davvero stupirvi è che non sarete affatto stupiti nel leggere che i Sangue Misto hanno scritto e cantato un cd rap o che Davide Toffolo abbia messo su un Istituto Italiano di Cumbia. Se il fatto che i francesi abbiano issato a bandiera gastronomica un dolce italiano e che uno dei fondatori della cultura sudamericana si sia cimentato con la letteratura giapponese possono creare smarrimento e sorpresa, d’altro canto che un genere musicale nato negli U.S.A. dalle rime improvvisate che come un muezzin l’MC scandiva per attirare il pubblico ai suoi djset sia ora tra i generi più popolari in Italia e in Francia ci appare assolutamente normale. In questa banalità è racchiusa tutta la forza della musica. Cucina, poesia e note sono unite dal filo dell’idea artistica che sta dietro le creazioni e che, per sua natura e seguendo le dinamiche di coloro che a quella idea danno vita, traccia rotte in tutto il mondo alla ricerca di un ambiente in cui crescere, sviluppare le sue radici ed esplodere in un terreno apparentemente estraneo ma capace di far sorgere la bellezza dalla diversità. Ma la naturalezza con cui la musica riesce a partire per percorrere distanze a volte lunghissime e con cui riesce a farsi accogliere all’estero con così tanta semplicità rende davvero chiaro quanto, sin dalla preistoria, la musica sia storicamente radicata nelle potenzialità comunicative degli esseri umani.
Come nel caso delle donne e degli uomini, la musica sembra celare nella sua voglia di partire una questione di vita o di morte. Naturalmente, differentemente da noi, la morte della musica non coincide effettivamente con la sua dissoluzione ma con la sua cristallizzazione in una forma fissa, statica, chiusa in se stessa. Se nella classifica dei pezzi estivi del 2018 ci fossero brani cantati à la Nilla Pizzi e Sergio Endrigo, pur riconoscendo la qualità degli artisti citati, potremmo pensare di celebrare il de profundis della musica italiana. Proprio per questo, la musica sembra aver sempre manifestato la necessità di partire, di provare a fondere la sua essenza con l’Altro per far nascere qualcosa di nuovo, modificare se stessa e non rimanere mai statica. La musica è movimento anche in questo, non solo quando ci fa sculettare. Questa voglia che ha la musica di uscire dal noto e avventurarsi per sentieri sconosciuti fa sì che la sua vera natura sia determinata dalle influenze che la compongono, da quello scambio continuo tra Paesi e culture. Proprio per questo, a partire dall’oggettiva difficoltà di definire un sé musicale, lo sforzo dei grandi musicisti è sempre stato quello di creare un sé 2.0 capace di inglobare quello che il mondo intero, nelle varie forme, sembrava voler dire in quel momento.
La musica non si ferma mai, non si lascia mai acchiappare, si arricchisce del diverso, trasmigra, emigra, vede nuovi Paesi, è felice di incontrare nuove culture, crea gemellaggi e prova, costantemente, a essere un esempio per quella che dovrebbe essere la nostra attitudine nei confronti delle migrazioni. La musica scappa per sopravvivere e gli artisti emigrano per far vivere la propria musica. L’armonia sul pentagramma si definisce in base all’unione di più note diverse, di diversa durata, capace di far risultare il diverso per quello che è ma, proprio in ragione della sua alterità, è essenzialmente portato a generare la bellezza.
Le radici
La musica per sua natura necessita di uscire dai propri confini; è una questione di sopravvivenza e, proprio come nelle relazioni umane, l’uscita non è quasi mai dettata da un odio nei confronti del proprio Paese o delle proprie origini ma dal desiderio di far conoscere e rendere dinamici dei confini che hanno senso solo se disegnati sui sussidiari, quando si parla di esseri umani. I musicisti riscoprono le proprie radici e le esportano all’estero per confrontarsi con il mondo fuori e sperare di essere accettati e di potersi radicare. La dinamica di scoperta delle origini e la promozione delle stesse fuori dai propri confini è stata motivata, nel caso di alcuni musicisti africani, dalla certezza che la Musica avrebbe presto riconosciuto i suoi antenati e non avrebbe avuto difficoltà a dare accoglienza a un parente così importante. Per questo alcuni musicisti africani hanno fatto dello studio delle loro tradizioni la chiave di volta del proprio stile musicale.
Bombino, il tuareg chitarrista paladino del finger picking, annoverato tra i più grandi musicisti della nostra epoca, ha come cifra stilistica la sua terra e il proprio nomadismo in un moto d’orgoglio che gli permette di cantare in Tamasheq, la lingua del suo popolo. La musica di Bombino aveva voglia di essere ascoltata fuori dai confini africani perché i suoi sono testi di denuncia e perché ci danno la possibilità di conoscere popoli da noi lontanissimi e di fondere orizzonti apparentemente distanti ma che, in realtà, ci mostrano quanto sia illusorio attribuire alle differenze dei caratteri di esclusione: canta di guerre, di difficoltà ma anche di leggende e di amore. La musica di Bombino vuole essere ascoltata perché è bella e il suo creatore decide di farla emigrare, di farla andare a cercare fortuna all’estero (completando un cerchio che era partito dalla Scozia di Mark Knopfler e dagli Stati Uniti di Jimi Hendrix). La musica di Bombino è stata bene accolta (non solo nel senso comunemente attribuito a critica e pubblico) dagli USA colpendo l’attenzione di Dan Auerbach dei Black Keys che ha prodotto il suo album Nomad, dall’Inghilterra rappresentata da Robert Plant, dall’est Europa dei Gogol Bordello e dall’Italia di Jovanotti. Tutti hanno riconosciuto nella musica di Bombino qualcosa di radicalmente diverso e hanno chiesto aiuto alla sua chitarra per impreziosire le loro composizioni, per suonare ciò che non è loro ma che si combina così bene con il noto. La naturalezza dell’incontro tra musiche di Paesi diversi ha fatto sì che la chitarra di Bombino suggerisse, in ogni occasione, il suo linguaggio.
Se lo stile di Bombino si è rivelato ben presto tanto forte da essere integrato e desiderato in Paesi dalla solida tradizione musicale, non da meno è stata quella di Tony Allen, batterista e percussionista nigeriano tra i pionieri dell’afro-beat, che ha sempre cercato di collaborare con artisti di altri Paesi e far partire la sua musica per viaggi sempre nuovi. Il desiderio e la necessità mai sopita di dover definire la sua musica a partire dall’incontro con gli altri Paesi, ha trovato il suo punto più alto nella creazione di un gruppo con Damon Albarn. The Good, the Bad and the Queen erano il tentativo, da parte di due dei talenti musicali più eclettici e inquieti della scena di mettere in pratica delle politiche di inclusione musicale. L’incontro dei ritmi africani con il brit-pop sempre teso alla sperimentazione dell’ex Blur, ha dato a entrambi la possibilità di esplorare la loro musica e arricchirla in maniera definitiva. Solo che alle bacchette di Allen un viaggio non bastava, e hanno deciso di partire per l’America per provare a trovare accoglienza in una città musicalmente poco affine allo stile del nigeriano. Il nuovo progetto di Tony Allen assieme a Jeff Mills, dj tra i fondatori della Detroit Techno, risponde proprio a questa esigenza della musica di esser in perpetuo movimento e viaggio senza aver mai una fissa dimora, pur mantenendo la sua origine. I beat del dj si fondono con il costante ritmo imposto dalla batteria di Allen creando un sound assolutamente nuovo e interessante perché permette alla ritmicità tipica dell’Africa di passare per le metalliche lame del frullatore digitale di Jeff Mills.
Gli esempi provenienti dall’Africa sono molteplici, radicano le loro radici nel gospel e arrivano al jazz di Orlando Julius la cui band, The Heliocentrics, è fieramente inglese – ma così ben disposta a far entrare nella propria sfera l’afrobeat del nigeriano, da legarlo al loro jazz-funk in maniera indissolubile in un amplesso vincente. La storia di Orlando Julius e della sua musica è inscindibile dal rapporto con il viaggio che l’ha portato a cercare di ripercorrere le strade di Coltrane e Charlie Parker per cercare una fusione tra le sue origini e la musica che tanto adorava. Tra le contaminazioni più interessanti il caso più emblematico è, forse, rappresentato da Amadou & Mariam. La coppia ha generato uno dei miglior esempi di convivenza armonica tra culture, utilizzando strumenti musicali e stili tipici dell’Africa (non solo del Mali, di cui sono originari) e dell’India per comporre una sorta di blues in chiave africana, propiziato dalla produzione francese dei loro album. La musica della coppia cieca del Mali rappresenta un inno all’integrazione in un meltin’ pot di strumenti, stili e lingue che simboleggia nella maniera più forte tutto il bello di una integrazione musicale fondata sull’emigrazione. L’emigrazione diventa, in alcune occasioni, l’unica ragione per cui arriviamo a conoscere della musica di cui, altrimenti, non ci saremmo mai potuti beare. Come saremmo entrati in contatto con la musica della diva a piedi nudi, Cesária Évora, se questa non fosse emigrata da Capo Verde, in cui viveva in condizioni a tal punto precarie da abbandonare la sua passione? Come avremmo potuto perderci nella sognante voce della cantante se non fosse partita per il Portogallo dove, grazie all’aiuto di alcune organizzazioni femminili, si esibì in alcuni concerti che lasciarono sbigottiti gli astanti? Come altro avremmo potuto avere Césaria se non avesse deciso di emigrare a Parigi dove conobbe la fama e registrò il suo album, La diva aux pieds nus, in cui il portoghese carico di nostalgia di Capo Verde creò un rapporto così intenso con il francese da arrivare in cima alle classifiche d’Oltralpe pur non essendo cantata in lingua?
Essere l’emigrazione musicale
Alcuni artisti hanno così preso a cuore la causa sociale e culturale del fenomeno migratorio che hanno deciso di trasformare la loro vita artistica in una sorta di collettore culturale di tutto ciò che l’essere umano può dare alla luce del suo eterno muoversi e spostarsi. L’esempio più evidente di questa corrente è sicuramente Manu Chao, cantante e chitarrista francese ma cittadino del mondo, che non solo è riuscito a far suoi gli stili di tutto il globo e a farsi veicolo delle possibilità espressive di ogni cultura, ma è stato in grado, attraverso lo stesso mezzo, di promuovere una cultura delle migrazioni contro il concetto di Clandestino – tale da imporre un’unità nel pianeta sostenuta da un senso di fratellanza che va oltre i confini geografici.
Ma per un artista che sceglie di essere migrazione musicale, c’è anche chi è costretto ad esserlo e ha saputo trarre forza dalla difficoltà. A incarnare, non per scelta stilistica, lo spirito dei musicisti migratori ci sono i Gogol Bordello, gruppo di origine ucraina, il cui leader, Eugene Hutz, è emigrato dal suo Paese per via del disastro di Chernobyl. La band composta da musicisti provenienti dall’est Europa, statunitensi e israeliani, sebbene iniziò la carriera suonando ai matrimoni degli immigrati est europei in USA, ha finito per definire un genere e esportarlo stabilendosi in un contesto totalmente diverso da quello per loro originario ma mantenendo salde le loro radici. La musica dei Gogol Bordello è riconoscibile come quella di un amico fraterno in viaggio all’estero: il tono è lo stesso ma la lingua è cambiata.
Uscire per tornare
Goran Bregovic è, probabilmente, il musicista più famoso dei Balcani, oltre che uno squisito compositore di colonne sonore. Il Paese da cui proviene Bregovic è di difficilissima comprensione da un punto di vista storico e solcato da conflitti ben radicati nella mente dei serbi, dei croati e dei bosniaci. Bregovic ha intrapreso un percorso differente rispetto agli artisti di cui abbiamo già raccontato poiché è dovuto emigrare e uscire dalla sua terra e allontanarsi dalla sua cultura per poterla riscoprire. La storia di Bregovic inizia con la musica rock dei Bijelo Dugme che risentiva tanto dello yu rock nel corso degli anni ’70 e che cercava di portare il rock occidentale nei Balcani. Anche il rock U.S.A. passava per le strette e patriottiche maglie del filtro Jugoslavo e veniva caratterizzato in maniera importante non solo dalla lingua ma anche da quelle sonorità gitane proprie del popolo balcanico. Quando però Bregovic, da solista, giunse al successo internazionale, la sua maturazione artistica l’ha portato ad allontanarsi dalla tradizione occidentale per una riscoperta totale della tradizione folkloristica fatta dei violini e tamburelli di Kalashnjikov a discapito delle chitarre distorte e rock di Polubauk Polukruži Polueuropom. Il viaggio musicale è stato per Bregovic condizione essenziale perché potesse tornare alle sue radici e emigrare con uno zaino diverso, quello della cultura balcanica che è stata, poi, accettata in tutto il resto d’Europa realizzando un desiderio di accettazione culturale inseguito a lungo (e non ancora totalmente raggiunto) dalla gente che abita i Paesi raccontati dal rocker gipsy bosniaco.
Il mondo alla rovescia
Sono anche moltissimi i casi di tendenza inversa, ovvero di musicisti della parte ricca del mondo che per dare nuova linfa vitale alla propria musica e farla vivere sono stati costretti a emigrare. È una tendenza che attraversa ogni genere musicale, oltre che ogni Paese. Nel campo del rock, il caso più eclatante è stato quello di George Harrison. Il chitarrista dei Beatles, spinto da David Cosby, iniziò ad appassionarsi allo studio del sitar, la chitarra tipica indiana. In particolare, venne rapito dalle composizioni di Ravi Shankar, un vero virtuoso dell’elaboratissimo strumento a corde, al punto da spingerlo a visitare l’India in una sorta di folgorazione mistica che gli ha permesso non solo di entrare in contatto con la cultura e lo spiritualismo indiano, ma di far suoi anche i suoni di quella cultura. Rapito da una sorta di rêverie mistica, Harrison si appassionò alla cultura indiana e alla musica attraverso cui tutto lo spiritualismo della terra veniva espresso. Il risultato è stato il continuo tentativo da parte di Harrison di infilare un pizzico di musica indiana in tutte le composizioni dei Fab For di lì a venire e l’esempio più vincente del mix è sicuramente Lucy In The Sky With Diamonds. Dirà Harrison in un’intervista a proposito del brano:
“Mi piacevano soprattutto i suoni, perché ero riuscito a sovrapporre strumenti indiani su musica occidentale. Avevo scritto brani come Within You Without You, per cercare gli strumenti indiani; normalmente non avrebbe funzionato con una canzone occidentale come Lucy, che ha cambi di accordi e modulazioni, mentre le tamboura e i sitar rimangono sempre sulla stessa tonalità. Mi piaceva il modo in cui si inseriva il bordone di tamboura. E c’era un’altra cosa: nella musica indiana nei brani cantati si accompagnano con uno strumento chiamato sarangi che ha un suono simile alla voce umana e il vocalista e il sarangi sono più o meno all’unisono nell’esecuzione. Per Lucy ho pensato di sfruttare quest’idea ma, dato che non so suonare il sarangi, ho provato a renderlo con la chitarra”
Nell’ambito della musica elettronica, l’ultimo disco del producer britannico, Bonobo, si intitola Migration e ha alla base la stessa necessità: evadere dai confini e salpare oltre quel confine a nord della precedente esperienza esistenzial-musicale. Il downtempo di Bonobo si mischia all’impronta tribale in Bambro Koyo Ganda, ad esempio. Ma al di là dei brani, è lo spirito che guida la composizione musicale del dj a incuriosirci e a darci la misura dell’importanza capitale che ricopre l’uscita dal noto per la produzione musicale.
Dobbiamo accoglierli tutti noi?
La musica emigra anche all’interno di uno stesso continente, proprio come gli studenti Erasmus, il cui istinto di sopravvivenza è, in realtà, una voglia di allargare i propri orizzonti e di puntare al meglio. Hanno lasciato da tempo Berlino e la Germania l’elettronica dei Kraftwerk e di Modeselektor, in sella al mammuth dei Moderat, per provare a radicarsi in altri Paesi europei ed extraeuropei. È salpata da tempo la trap che, partita dagli USA, è diventato genere di tendenza in Italia, in Francia grazie a Booba e in Germania con Fler. In alcuni casi, la trap ha dato possibilità di espressione ai giovani in difficoltà sociali. In Italia, ad esempio, i cittadini di seconda generazione hanno trovato nella trap un modo di farsi sentire, di distruggere il razzismo dilagante, indirizzandosi soprattutto ai giovani. Le origini tunisine di Ghali non vengono mai nascoste dall’artista, ma accentuate in quanto conviventi con il suo essere italiano. La musica può diventare, soprattutto nei giovani, un modo per abbattere l’ignoranza prima che intervengano gli slogan politici e Ghali & co. l’hanno compreso subito e hanno sfruttato le potenzialità dell’autotune per arrivare ai cittadini del futuro.
La musica come espressione delle minoranze etniche immigrate diventa bandiera in Francia grazie al rap statunitense che diventa inno nelle banlieue di tutti quei francesi nati da genitori originari delle colonie, dei figli dell’Algeria, del Senegal, della Tunisia che, ghettizzati, trovano nel rap, un genere lontano da loro culturalmente, il perfetto mezzo per denunciare la loro difficile condizione sociale. Il rap degli NTM e degli IAM (originari di Marsiglia, la più portuale e multiculturale città francese), tra i fondatori del rap francese di denuncia, è da iscrivere in questo discorso di rivalsa sociale e umana.
Italiani d’Argentina
Così come i nostri antenati sono stati costretti per esigenze svariate a partire e a essere loro stessi migranti anche la nostra musica ha dovuto “emigrare”, farsi contaminare per crescere e possiamo dire che molti dei risultati più apprezzabili nel campo musicale nascono da quella apertura che, nel caso della musica, sembra non conoscere razzismo. Basti pensare che quello che viene definito da molti come il disco migliore di Battisti, quello più coraggioso, quello premiato per l’audacia, è un disco con l’anima latina. Lo stesso si può dire per la musica di Pino Daniele che da “nero a metà” creò uno dei progetti più musicalmente rilevanti della musica italiana mescolando ciò che veniva dagli U.S.A. (che esportavano il jazz, il blues, la musica black) con la cadenza ritmica dei paesi latino-americani.
Così come nel caso di Marsiglia, anche Napoli, città di mare col porto teso ad accogliere persone, culture e influenze, è stata in passato la culla di molte immigrazioni musicali: James Senese e la sua musica napoletan-a-mericana frutto della discendenza made in U.S.A. data dal padre che era un soldato statunitense di stanza a Napoli e, soprattutto, Raiz e gli Almamegretta – che riuscirono a creare un tessuto perfettamente integrato in cui riuscivano a coesistere Napoli e il mondo. L’anima migrante è quella che non conosce confini geografici e si sposta nella speranza di poter essere accolta. E la band è riuscita nella doppia missione di accogliere lo “straniero” nella loro musica e integrarlo nel loro dialetto. World music allo stato puro che univa in un unico calderone il trip-hop dei Massive Attack (Karmacoma passa per il Napoli trip), la drum’n’bass degli Asian Dub Foundation (britannici ma, a loro volta, di origini asiatiche), fino alle collaborazioni con la cantante siberiana Sainkho Namtchilak. Africa, Arabia, Spagna, America Latina tutte unite sotto il segno di Annibale che, da conquistatore del mondo intero, può essere definito padre di tutti, indipendentemente dalla nazionalità: “Annibale sconfisse i romani, restò in Italia da padrone per quindici o vent’anni ecco perché molti italiani hanno la pelle scura”, cantavano gli Almamegretta.
Franco Battiato ha sempre fatto della sperimentazione musicale, oltre che dei testi complessi e meravigliosi, la sua modalità espressiva privilegiata. Ma quando l’Italia sembrava aver finito i proiettili caricati a ispirazione, a Battiato è stato sufficiente partire ed emigrare nei caldi tropici per rubarne il suono e farlo proprio. Nascono pezzi come Stranizza d’amuri i cui suoni da spiaggia e da noci di cocco si fondono con il dialetto siciliano del maestro. Il brano è figlio della partenza spirituale del siciliano in direzione Brasile, dove, accolto dalla musica di Caetano Veloso, trovò nel suo virtuosismo ricco di saudade un centro di accoglienza per la sua musica. La filosofia orientale, i riferimenti a Paesi lontani, a tradizioni persiane, a figure storiche asiatiche, tutto il micromondo di Battiato rappresenta un elogio al viaggio, alla migrazione, alla contaminazione (che sarà parola cardine della sua produzione).
Ritornando ai giorni nostri, la nuova promessa Joan Thiele ha fatto sua la dinamicità migrante verso altri Paesi. Pur giovanissima, o forse proprio perché tale, Joan si è definita come cantante del mondo, poliglotta e amante dell’estero. L’ultimo suo album Tango è una meravigliosa rappresentazione del potere della diversità, cantato in inglese e in portoghese, in salsa latina con un pizzico di Patagonia. Pezzi come Azul e Underwater sembrano testimoniare la voglia e la necessità che la musica non cessi mai di essere vagabonda per continuare a essere uno dei mezzi d’espressione più orizzontali che esista.
Restiamo musica
Non c’è cultura senza musica e non c’è musica senza contaminazione resa sempre possibile dalla natura volatile e necessaria delle note che salpano senza paura verso altri Paesi. La musica insegna ad accogliere la musica indipendentemente dal genere, dalla lingua, dallo stile, perché riconosce ciò che le è simile a un livello più generale, astratto e platonicamente vero. Ci insegna che, al di là delle differenze (e proprio per quelle), la ricchezza della nostra identità viene dall’Altro da sé. La musica sa che la definizione cristallizza e che la fluidità garantisce movimento e mutamento. La musica prova a dirci che non bisogna mai fermarsi e che non bisogna mai fermare perché il movimento genera un incontro e dall’incontro nasce la possibilità di costituirsi in quanto melodia, narrazione, capolavoro. La musica viaggia e ci insegna che un muro fatto di caleidoscopiche influenze è meno solido ma più solidale di un muro fatto di granitiche categorie.
A volte basta ascoltare cosa ha da raccontare la Musica per restare umani.