Che bisogno c’è di mentire in un modo simile? Io non mi spiego perché mai un ragazzo che ha tutto nella vita, o che lo avrà, si mette a pensare a tali stupidaggini a base di dita di aria e altre assurdità, inventando una trama triste e diversa per un racconto già abbastanza triste di per sé. È questo a farmi sentire indifferente nei confronti di Toto, distaccata, come se non parlassimo la stessa lingua. È proprio vero che l’adolescenza è l’età dello squilibrio.
Sempre più spesso, nel tentativo maldestro di assecondare questa specie di vocazione al narrare storie altrui, mi capita di inciampare nel pensiero di un’inquisizione di Jorge Luis Borges che, in maniera rocambolesca, finì tra le mie mani mentre ero affacciato a una terrazza a picco sul golfo di Napoli, sul limitare ultimo dei giorni del liceo. Quella confutazione del tempo – quella sensazione di non essere nella scia di una memoria di eventi lontani ma di appartenervi in maniera salda nel presente – è ritornata prepotente nel leggere alcune pagine de Il Tradimento di Rita Hayworth, il romanzo d’esordio dello scrittore argentino Manuel Puig, pubblicato per la prima volta nel 1969, e ora ristampato e ritradotto (Angelo Morino) da Sur.
A un certo punto, Toto – il protagonista di quest’atipico romanzo di formazione che racconta la crescita di un bambino che vive nella Pampa, e che filtra la sua vita e quella di chiunque graviti intorno al suo mondo attraverso le sue fantasticherie di assiduo frequentatore di cinematografi di seconda visione – resta folgorato da Rita Hayworth, protagonista di Sangue e Arena, il film del 1941 di Rouben Maoulian con Tyrone Power, tratto dal romanzo di Vicente Blasco Ibañez.
Quel passaggio ha riaperto la porta di una rudimentale macchina del tempo – come quella del professor Marlin delle mie letture di Topolino da bambino – che mi ha riportato a quegli stessi anni, in un piccolo cortile dove, una sera d’estate, mentre giocavo con un pastore tedesco femmina, un gruppo composto di sole donne guardava – circondate dalle bouganville e da un cancelletto dal colore di un azzurro che non avrei mai più ritrovato – proprio Sangue e Arena, di passaggio su una vecchia televisione dalla quale – ma l’ho realizzato solo tenendo questo libro tra le mani – sentii per la prima volta, distrattamente, parlare d’amore. E se questo avrebbe dovuto far parte di un gioco a indizi non portato a termine, è stato immediato confondere e sovrapporre suggestioni e ricordi, per ritrovare su una strada dimenticata quelle molliche di pane che, in qualche modo, ci legano al filo sottile che ci riporta a noi stessi e a come siamo diventati ciò che siamo oggi.
Perché la filigrana che s’intravede tra le pagine di questo libro parla esattamente di questo: a uno stesso tempo dell’educazione sentimentale e dell’incidenza di ogni più piccolo particolare – anche dimenticato – nel percorso che ci porta a diventare adulti. E non a caso parlo di intravedere, perché in realtà il racconto – dalla nascita ai quindici anni – di Toto Casals procede in maniera atipica, diviso com’è per capitoli che, non solo non seguono una reale continuità e contiguità di racconto, ma sono affidati a una polifonia di voci; microcosmi fatti di pensieri e ricordi che trovano espressione in lunghi flussi di coscienza, legati spesso a una sola, potente, voce dopo un primo capitolo che spiazza: costruito solo da battute dirette, dove è impossibile districarsi tra protagonisti e comparse che nemmeno sono state ancora introdotte e che – da subito – ci conducono tra le strade di un paese di provincia, in case umili e polverose, scenario autentico di un’umanità sconosciuta, ostica e affascinante.
Toto è un ragazzo che ha il potere di irritarmi come nessun altro. Dev’essere per la sua presunzione di esprimere giudizi su tutti e su tutto, pur avendo solo quindici anni. Lo odio davvero quando critica la gente che pensa solo a mangiare, dormire e comprare un’auto. Si indigna perché nessuno legge, quando lui legge quasi un libro al giorno, e perché nessuno ascolta musica. Lui non esce con nessuno, non ha amici a Vallejos, dice, perché non ha nulla di cui parlare con nessuno.
Toto è un bambino di particolare sensibilità e fragilità – che talvolta esprimerà con aggressività, altre ancora attraverso il goffo tentativo di provare a restare integro in mezzo agli altri – attaccato a una madre con cui va sempre a cinema e insieme alla quale disegna figurine ispirate ai divi e soprattutto alle dive hollywoodiane degli anni ’30 e ’40 e che per crescere dovrà passare per quell’incontro/scontro con la società che lo circonda e che, immediatamente, ne segnalerà, intravedendole e facendole vedere, come in uno specchio deformato, a lui stesso, la natura della sua diversità.
Quel tradimento di Rita Hayworth – quel tubo vuoto descritto da Orson Welles, una Doña Sol, sensuale e conturbante, eternata sulla celluloide di vecchie pellicole e vecchi cinema – dentro a un amarcord che ci riporta nel periodo tra il 1933 e il 1947 con, lontani, gli echi dei regimi totalitari europei, della Seconda Guerra Mondiale e dei vagiti del peronismo – si fa paradigma di un tradimento molto più sfumato che, per Toto, è l’incontro con le verità del mondo.
Mita che si lamenta sempre che il Toto non cresce, «moccioso di merda, perché non cresci?», diceva in faccia al bambino, e il bambino è andato a lezione di piano e lei mi dice «quel figlio di puttana non vuole crescere»
Figlio di un padre assente – che pure, sul finale del libro in un ritorno al 1933, mostrerà i segni di una debolezza e di un affetto non confessabili nella cultura machista sudamericana dei primi anni del novecento, e per molti decenni ancora – e di una madre, Mita – della quale percepiamo sempre una debolezza, uno scollamento, una frattura rispetto alle sue necessità di donna, di figlia, di moglie, di madre – Toto vive, pagina dopo pagina, il tradimento di un mondo ideale che si sgretola sotto il suo sguardo di bambino curioso che si posa, suo malgrado, sull’immobile infelicità degli adulti, sulle pieghe di una società chiusa e retrograda, sul pettegolezzo e la violenza scolastica, sui silenzi che dominano l’universo instabile di coetanei e adulti che, capitolo dopo capitolo, lasciano trapelare – dietro racconti ora impacciati, ora pieni di sincerità e confidenze, di tracotanza e debolezze – i propri turbamenti, i fallimenti, le frustrazioni, il filo sottilissimo di una ragnatela delle proprie speranze che dà vita a un racconto corale e trasversale che fa avanzare la storia.
E io gli ho domandato cosa fanno i ragazzi e le ragazze la domenica da quando si incontrano fino a quando si separano. E lui ha detto: «Si incontrano al cinema e per tutto il film si tengono la mano, poi vanno a mangiare qualcosa in cremeria e poi all’Adlon dove suonano musica speciale per coppie. E quando sono seduti si dicono che si vogliono bene, parlano del film che hanno visto e si mettono d’accordo sul film che vedranno la domenica dopo e il meglio di tutto è quando in settimana c’è un giorno di festa perché cosi non devono aspettare una settimana e si avvicina l’ora in cui il ragazzo deve accompagnare la ragazza al collegio e in quelle vie buie si baciano e si abbracciano».
Come in un director’s cut tanto caotico nell’effetto, quanto attento e misurato nelle intenzioni, Puig costruisce il suo intreccio attraverso inquadrature sghembe e parziali che non arrivano mai in primo piano ma che lasciano traccia di segni importanti ai margini di un’inquadratura e che provano, sì, a dare un senso unitario ma che sanno bene come una verità non è mai granitica, ma è, piuttosto, la somma di versioni diverse, di sguardi diversi, di stati d’animo diversi, che danno conto dei protagonisti – e di Toto in primis – come di mosaici incompleti, offrendo al lettore sfaccettature talvolta anche difficili da ricomporre.
Scritto a New York nel 1965, dove Puig si manteneva con un lavoro da impiegato di Air France all’aeroporto, Il Tradimento di Rita Hayworth sarà pubblicato solo quattro anni più tardi da Gallimard in Francia, grazie all’intermediazione dell’amico Nestros Almendros, il grande direttore della fotografia de I giorni del cielo di Terrence Malick.
Quel ’65 fu per Puig la scoperta di una vocazione per la letteratura. Scoperta, perché la sua strada sembrava portare in ben altra direzione. Nel 1956, dieci anni prima, il ventitreenne Puig, infatti, atterrava a Roma, più precisamente al Centro Sperimentale di Cinematografia di Cinecittà, spinto dall’amore per la celluloide che lo aveva animato fin da bambino e i cui riflessi saranno trasfigurati in questa come in altre sue opere. Erano però tempi ancora imbevuti di neorealismo mentre Puig ricercava l’aura magnifica del cinema hollywoodiano; in breve, deluso, si muoverà tra Roma, Parigi e Londra fino al ritorno nel continente americano.
Ma il cinema resterà non solo una passione ma l’elemento che influenzerà la sua scrittura così dominata dal potere della fantasia, dal sogno hollywoodiano come forma espressiva, certo, ma anche come capacità narrativa che diventerà sola possibilità di una fuga necessaria per colmare, con un balzo, l’ampio solco tra realtà e immaginazione.
La passione per il cinema americano sarà, dunque, sempre la cifra fondamentale che Puig trasferirà nelle sue opere. E che esploderà forse in maniera più compiuta ne Il Bacio della Donna Ragno (1976) dove il detenuto Molina, racconterà tutto il tempo – come una moderna Sherazade – al detenuto politico Valentin, la trama dei film d’amore di quegli anni. Puig, nel tempo, perfezionerà sempre più in una tecnica di collage di materiali, voci, immagini, sempre più disparati, tenendo insieme registro alto e basso, cultura pop, radio e cinematografo, giornaletti scandalistici e letteratura: il tutto con un originale tocco di melò. Come avverrà, dall’esordio in avanti, Puig opererà questa trasfigurazione della realtà, dentro agli stessi romanzi, certo, dove protagonisti anche adulti proveranno a scardinare il grigiore delle loro vite – materiali, morali, emotive – attraverso la lente del sogno di celluloide ma anche al di fuori di essi, trascinando dentro ai suoi stessi libri le proprie storie personali.
Già da questo libro sono presenti molti dei tratti salienti della sua poetica letteraria: la narrazione polifonica in primis – per molti detrattori, limite a una riconoscibilità della sua voce – ma anche la trasposizione, come si diceva, di vicende personali come i turbamenti della sessualità e del rapporto con una società fortemente malsana (se intuiamo come Toto scopre a poco a poco la sua omosessualità è soprattutto per il confronto, anche duro, con un microcosmo – quello dell’Argentina d’inizio secolo – in cui vige una netta separazione tra i generi, dove le ragazze appaiono come ingenue sognatrici, desiderose di provare le prime esperienze e i maschi come animaletti violenti, interessati più che alla sessualità in sé, all’affermazione prepotente e machista del dominio sulla donna e del conseguente ingresso trionfale dentro il mondo adulto maschile).
È curioso come si possono provare sentimenti diversi per una stessa persona o per una casa o per un luogo.
Pur filtrata, dunque, dalla lente della finzione letteraria, la storia dietro Il Tradimento di Rita Hayworth, è quella della formazione dello stesso Puig che – se qui proverà, almeno in parte, a celare molti aspetti della sua biografia – nel successivo Boquitas pintadas (Una frase, un rigo appena; ancora Sur, 2018), scritto nel 1967 e pubblicato in Argentina nel 1969 e che gli darà il successo auspicato – descriverà la propria esperienza di vita in maniera molto più esplicita, cambiando solo qua e là i nomi al punto tale che la gente del suo paese natale riuscirà a proibire la proiezione del film tratto dal romanzo nei cinema di General Villegas.
Nonostante il successo, Puig resterà, in vita, uno scrittore non amato dal mondo letterario tanto per il peccato della sua omosessualità quanto per un’ostilità piuttosto radicata che, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, lo vedranno relegato ai margini di una certa intellighenzia – non solo sudamericana – incapace di coglierne la sperimentazione, la capacità di infondere dentro un racconto, certamente popolare, una profonda conoscenza dell’animo umano – per fortuna – priva di quella spocchia che, spesso, accompagna gli scrittori d’ambiente borghese da cui lui stesso proveniva. Il mondo di Puig resterà sempre quello di una classe popolare che aveva conosciuto e amato, di un modo di vivere marginale – la provincia, la diversità sessuale, la sensibilità estrema. I suoi libri sono il frutto di una mente curiosa e aperta, di un uomo che aveva girato e conosciuto il mondo e, dal mondo e dai suoi interessi, aveva tratto un’incredibile poliedricità di linguaggio, pensieri, idee, emotività che riversava in un universo caotico e ricchissimo, capace di dar voce – voci – a un mondo fragile e affascinante.