Ridley Scott | Una lunga carriera nel cinema

Nato a South Shields nel 1937 e diplomato alla scuola d’arte, Ridley Scott si è imposto fin dagli esordi pubblicitari come un raffinato regista attento a ogni componente dello stile visivo, dalla fotografia alla scenografia. Il suo rigore nella ricerca della perfezione stilistica e nella sua quasi ultraterrena capacità di riuscire a raccontare grandi storie per immagini gli ha garantito un passaggio naturale dal mondo della produzione pubblicitaria al cinema, e già il suo primissimo cortometraggio studentesco, Boy and Bycicle (1962), che allineava le immagini semplici ma d’impatto di un ragazzo in bicicletta tra le strade della periferia industriale londinese riprese in un affascinante bianco e nero in 16mm, anticipava la cifra autoriale del futuro maestro del cinema.

Dopo una lunga gavetta tra spot pubblicitari (memorabile quello girato per il primo Macintosh della Apple intitolato 1984, uscito nel medesimo anno e chiaramente ispirato al capolavoro della letteratura distopica di George Orwell) e documentari girati tra Stati Uniti e Inghilterra, Scott riesce a dirigere il suo primo lungometraggio, I duellanti (1977), tratto dal racconto omonimo di Joseph Conrad e con protagonista un irruento Harvey Keitel. Storia dell’insensata e sempre più folle rivalità tra due ufficiali francesi sotto il comando di Bonaparte, I duellanti è una raffinata allegoria dell’epopea napoleonica e del successivo equilibrio di poteri nell’Europa ottocentesca filtrata attraverso un uso kubrickiano della luce naturale e ambientata tra rovine romantiche e paesaggi memori della pittura di Caspar David Friedrich. Malgrado il premio per il miglior esordio al Festival di Cannes del 1977 presieduto da Roberto Rossellini, I duellanti fu relativamente poco visto, ma ciò non impedì a Scott di sbarcare a Hollywood per dare la svolta definitiva al suo stile.

I primi capolavori e il dopo-Blade Runner

Sul set di Blade Runner

Alien (1978) e Blade Runner (1981) divennero archetipi e incarnazione ultima della grande fantascienza d’autore inaugurata da Kubrick (2001: Odissea nello Spazio, 1968) e Tarkovskij (Solaris, 1972). Alien, sulla scia di Terrore dallo spazio di Mario Bava, ha contribuito a codificare le regole dello slasher trasformando i viaggi interstellari in incubi con sottili riferimenti allo stupro da parte di una perfetta macchina di morte extraterrestre, disegnata dal visionario Hans Giger e realizzata dal mago degli effetti speciali Carlo Rambaldi; Blade Runner, invece, ha gettato le basi per l’estetica cyberpunk ammantata di tematiche esistenziali e pessimiste, influenzando una buona metà di tutta la fantascienza cinematografica successiva. A questi due capolavori sono seguiti due godibili esercizi di stile che hanno consacrato la fama di Scott come regista versatile e mai restio a sperimentare con gli stilemi di generi diversi gli uni dagli altri: Legend (1985) è un fantasy oscuro e visivamente affascinante che oggi si ricorda per la magistrale interpretazione di Tim Curry nei panni del Diavolo e per una delle prime apparizioni di Tom Cruise; Chi protegge il testimone (1987), invece, contamina una tradizionale storia poliziesca di caccia al criminale con il dramma sentimentale, costruendo un film godibile per una serata autunnale. Entrambi, però, sono stati dei flop.

Black Rain (1989), con Michael Douglas e Andy Garcia, segna la prima risurrezione di Scott e mostra a tutti la sua abilità nel confezionare patinati e avvincenti action movie alla maniera del Top Gun diretto qualche anno prima dal fratello Tony, e in più regala un’inconsueta ma interessante variazione sul tema dell’incontro/scontro tra la cultura occidentale e quella orientale.

Gli anni Novanta: il decennio del disimpegno

Thelma and Louise

Nel 1991, Scott dirige un altro capolavoro, Thelma & Louise con Geena Davis e Susan Sarandon, cult assoluto del filone road movie e inno alla libertà ambientato tra paesaggi rurali degli Stati Uniti di splendido impatto visivo, innovativo nelle sue implicazioni femministe che rovesciano le convenzioni di un genere di esclusivo appannaggio maschile. Questo film ha permesso a Scott di divenire un demiurgo del cinema riconosciuto dalla critica, e di ottenere la sua prima, prestigiosa nomination all’Oscar alla Regia.

Il successo clamoroso di Thelma & Louise apre però a un decennio di scarsa ispirazione per il regista, che di lì al 1998, probabilmente distratto dall’edificazione della sua personale casa di produzione (la Scott Free Productions), dirigerà le tre pellicole più disimpegnate e dimenticabili della sua carriera: 1492: La conquista del paradiso (1992) è un biopic sulla figura di Cristoforo Colombo (Gerard Depardieu) girato su commissione in occasione del cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America che, a parte i paesaggi caraibici splendidamente fotografati e una memorabile colonna sonora di Vangelis, offre un racconto didascalico, poco coinvolgente e talvolta noioso; L’albatross (1996) è una variazione sul tema in salsa marinara di L’attimo fuggente di Weir, impregnato però della retorica più stucchevole; ma è con Soldato Jane (1998) con Demi Moore, esaltazione fanatica del militarismo americano mascherato da maldestro tentativo di fare apologia femminista, che il regista inglese tocca il punto più basso della sua carriera.

Il ritorno al successo

Il gladiatore

Analogamente alla fenice, Ridley Scott risorge dalle ceneri di Soldato Jane (massacrato dal pubblico e deriso dalla critica) rispolverando il genere peplum con Il Gladiatore (2000), avvincente e maestosa storia di vendetta, ambientata durante il dominio dell’Impero Romano, coronata con ben cinque Premi Oscar per la bellezza mozzafiato delle scenografia, delle violente scene di battaglia e per la vivida interpretazione di Russell Crowe, nei panni del “generale che divenne gladiatore” per sfidare il dominio corrotto e delirante del viscido imperatore patricida Commodo (un Joaquin Phoenix gustosamente detestabile). Scott tornerà a far squadra con Crowe in altre pellicole interessanti e ben dirette, di generi completamente diversi che continuano a esplicare il gusto sperimentale del cineasta: la rilassante commedia provenzale Un’ottima annata (2006), l’epico saggio sul microcosmo criminale afroamericano di American Gangster (2008), il thriller di spionaggio Nessuna verità (2009) in cui Leonardo DiCaprio interpreta un agente della CIA con l’incarico di sventare la minaccia terroristica di Al Qaida.

Non sono forse una meraviglia Russell Crowe e Marion Cotillard in Un’ottima annata?

Pur puntellando la sua filmografia con pellicole su commissione dove riesce comunque a coniugare le esigenze commerciali con il suo sovrannaturale gusto estetico e intellettuale (i fasti spettacolari della violenza estetica in Hannibal, sequel del 2001 di Il silenzio degli innocenti, memore dell’arte macabra medievale; l’arguta satira dell’America post-9/11 della commedia nera Il genio della truffa del 2003), Ridley Scott rimarrà fedele alla sua passione per la “creazione di mondi” e la ricostruzione di controverse pagine storiche. A quest’ultima categoria appartengono Black Hawk Down (2001) e Le crociate – Kingdom of Heaven (2004). Il primo è un’apocalittica cronaca bellica su un catastrofico blitz trasformato in carneficina durante la guerra civile somala agli inizi degli anni Novanta, il secondo è un grandioso racconto epico su vasta scala e dal cast stellare (Orlando Bloom, Eva Green, Liam Neeson e Jeremy Irons) che veicola un forte messaggio di speranza per far sì che l’armonia tra culture e religioni non rimanga solo una labile utopia.

“Ribellarsi finché gli agnelli non diverranno leoni”: genesi di un cinema ribelle

Sul set di The Counselor con Penélope Cruz

Robin Hood (2010), di nuovo con Russell Crowe, ed Exodus: Dèi e Re (2014) con Christian Bale nei panni del profeta ebreo Mosè, proseguono sulla scia dei grandi kolossal scenograficamente ricchi e pieni di comparse, ma pur offrendo delle riletture interessanti di grandi personaggi della cultura occidentale che muovono i loro passi nel mondo, facendo i conti con le loro contraddizioni interne e imparando a diventare forti leader politici, costituiscono due comunque pregevoli pagine minori del cinema scottiano.

Se Exodus metteva in dubbio l’esistenza di Dio, facendo della sua presenza un ambiguo frutto dell’immaginazione di Mosè mentre le nove piaghe d’Egitto venivano razionalizzate come fenomeni accresciuti in potenza di una natura crudele, Prometheus (2012) si basa su un unico, inquietante principio: Dio esiste ma vuole distruggere la sua creazione. Ridley Scott semina per tutto il film, nato come prequel della saga di Alien, una serie di stimolanti implicazioni filosofiche sulla natura del divino e sul rapporto padre e figlio per giustificare uno spettacolo fantascientifico a tinte horror che però verrà accolto tiepidamente da critica e pubblico. Analogo destino toccherà anche a The Counselor (2013), sceneggiato dal Cormac McCarthy di Non è un paese per vecchi, che con il suo misto di violenza schizoide e verbosità portata all’estremo rappresenta il film più tarantiniano del regista, immerso nelle luci livide della fotografia di un Dariusz Wolski (famoso per aver curato le atmosfere di Il Corvo e Pirati dei Caraibi) che rende gelide le strade e opachi gli interni di lusso di Città del Messico, e dotato di una cattiveria nichilista fuori dal normale.

Tra fiducia progressista e pessimismo cosmico

The Martian

Lasciatosi alle spalle la sontuosità dell’impero egizio ricostruito con Exodus, Scott torna “in orbita” con due parabole spaziali dai toni e temi diamentralmente opposti: l’ottimo The Martian (2015) è uno spettacolare e (auto)ironico elogio alla ricerca scientifica e alla fiducia nell’intelletto umano inserito nella rivisitazione in chiave fantascientifica di un novello Robinson Crusoe, interpretato con gusto da Matt Damon, costretto a seguito di un incidente a sopravvivere come può tra le sabbie cremisi di Marte; Alien: Covenant (2017) riprende la trama del precedente Prometheus per tessere invece un racconto non privo di allusioni al Romanticismo letterario e pittorico in cui le feroci esplosioni di violenza estrema dell’impianto slasher si fondono al tema del crollo delle certezze umane di fronte alla perfezione di una creatura aliena concepita per uccidere dall’idealismo creazionista folle di un androide interpretato magistralmente da Michael Fassbender.

Tutti i soldi del mondo (2018) è un saggio ben diretto sull’avidità che inquina i rapporti familiari, ispirato alla vera storia del rapimento di John Paul Getty III, impreziosito da bellissime performance di Michelle Williams, Mark Wahlberg e Christopher Plummer, ed è a oggi l’ultimo film del regista, impegnato tuttavia in una corposa serie di progetti di prossima uscita con i quali dimostra, a più di ottant’anni, di saper rendere straordinario l’ordinario con un uso della macchina da presa di gusto sopraffino.

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