Per raccontare una persona bisogna renderne l’unicità. Scrivere di un cantautore è raccontarne l’unicità, oltre le canzoni, oltre le mani sugli strumenti. Ancora di più nel caso di Vic Chesnutt. I cantautori fanno una cosa molto semplice all’apparenza: raccontano la vita. Tante volte la usano come una postazione per raccontare tutto quello che succede intorno, altre per narrare la propria, le storie vissute e la polvere che di quelle storie è rimasta addosso. L’unicità di Chesnutt sta nel far entrare e uscire la musica dal suo corpo. Vic usa la musica come una radiografia costante del suo stato fisico e mentale. La chitarra e la voce diventano la sonda che esplora, ascolta e rintraccia vibrazioni che raccolgono biascichii e sommano silenzi. Le canzoni che ne vengono fuori pesano probabilmente quei 21 grammi che pare pesi l’anima.
Al rapporto così intimo con la musica Chesnutt ci arriva attraverso differenti sentieri, a volte scelti a volte no, non tutti prevedibili in anticipo, fino a formare una lunga strada percorsa in parte sulle sue gambe in parte con l’aiuto di una sedia a rotelle, forse proprio per questo la sua mente e il suo cuore hanno plasmato con tanta intensità la sua musica. Per Vic niente resta indietro e niente resta fuori, ma tutto prende le sembianze del presente, perché è sempre il presente, con i suoi umori, che racconta, ogni cosa. Per avere subito una conferma provate ad ascoltare l’intensità tagliente, da brividi, dei quattro minuti e mezzo del brano Florida, (sua terra di nascita) “il luogo perfetto per congedarsi dalla vita”. Nelle canzoni di Chesnutt si vive costantemente la fine, con sarcasmo, ironia, disperazione, dolore e profondità. È questo sentire che lo avvicina ai poeti. D’altra parte, sin da quando ha avuto tra le mani il volume The Norton Anthology of Modern and Contemporary Poetry, ha sempre messo la poesia al primo posto. L’incontro con la poesia è stato folgorante, decisivo e gravido di conseguenze, proprio come quello che avvenne in un piccolo locale di Athens in Georgia, quando Michael Stipe dei Rem si imbatte in una manciata di canzoni di Vic eseguite chitarra e voce e se ne infatua all’istante, tanto da convincerlo a incidere, dando così l’avvio alla storia discografica del musicista americano.
Perché siamo ad Athens? Perché la prima parte della vita di Chesnutt è piena di cambiamenti radicali, dall’adozione al cambio di città, da Jacksonville in Georgia a Zebulon prima e poi appunto ad Athens, località anche dei REM, che già da qualche anno sono una band. L’incidente stradale che pone Chesnutt sulla sedia a rotelle per sempre avviene nel 1983 e la chitarra diventa lo strumento con cui provare a convivere con quell’oscurità che pian piano l’assale, ma sarebbe ingiusto ridurre tutto a questo, perché Vic si dimostrerà un artista profondo e unico a prescindere.
Quella chitarra è chiusa nella carta da regalo pronta per Vic la sera di Natale del 1980. Poco più di due settimane prima a Manhattan, cinque proiettili stroncano la vita di John Lennon, e Vic, come tanti altri nel mondo, ne resta scioccato. Quella chitarra, che nell’immediato doveva servire a consolarlo, in poco tempo diventa il suo strumento per comunicare meglio. Comincia a buttare giù le prime canzoni guardando, come tutti i songwriters, a Bob Dylan, a Johnny Cash a Leonard Cohen e ovviamente ai Beatles.
Piccoli e grandi traumi segnano la giovane esistenza di Vic che tuttavia non si allontana mai dalla musica e l’incontro con Stipe diventa subito un’opportunità, infatti in un solo pomeriggio del mese di ottobre del 1988, registra tutte le canzoni che qualche tempo dopo, nel 1990, usciranno per la piccola etichetta Texas Hotel, con il nome di Little, il suo primo album. Un disco chitarra, voce e anima, essenziale e diretto, senza filtri, come ormai è la sua vita. I tratti autobiografici narrati qualche volta sanno di sconforto ma non sono mai di commiserazione, al contrario, Vic si fa carico in prima persone della sua infanzia, inclusa l’adozione (ne parla nella canzone Giupetto), senza rifugiarsi nel determinismo o nel dogma della fede rispetto al futuro, racconta invece dei sogni e si fa forza del suo ateismo. La sua vena ironica, sarcastica, talvolta un po’ acida, consegna alla sua voce tutte quelle sfumature che riescono a raccontare anche il dolore profondo senza caderci dentro. Tutto questo mondo, umano e sonoro, resterà alla base di tutta la vita artistica e discografica di Chesnutt, che musicalmente crescerà di continuo e non deve sorprendere se nel suo percorso collaborerà con artisti apparentemente molto distanti dal suo cantautorato di partenza, come per esempio Bill Frisell, Guy Picciotto dei Fugazi o Bruce Cawdron dei Godspeed You! Black Emperor.
Intanto Stipe confortato dai risultati di Little torna ancora in studio con Vic per il secondo album, West of Rome che sarà davvero un piccolo gioiello della prima parte della sua discografia. È passato solo un anno dall’esordio ma quel primo disco ha messo sul tappeto un percorso, ha tracciato una strada e in pochi mesi Chesnutt ha saputo fare quel salto di qualità che rende questo secondo capitolo maturo e convincente, allo stesso tempo anche Stipe a sua volta, ancora in veste di produttore, si dimostra più maturo. I brani si allungano rispetto a quelli molto brevi di Little e il senso di claustrofobia tende a sfumare pur mantenendo l’intensità, ormai marchio di fabbrica della performance di Vic. Scorrendo la lunga tracklist del disco ci si imbatte in sorprese che non fanno altro che confermare il decollo di un musicista importante che si rivela in tutta la sua arte in brani come Sponge, Where Were You, la già citata e splendida Florida, fino a vette come Stupid Preoccupations e Panic Pure che per certi versi anticipa scenari e sonorità future.
“Ricordati di Chesnutt”, intima Emidio Clementi con i suoi Massimo Volume. E ha ragione, perché Vic è sempre fuori dalle mappe. Difficile scorgere i motivi più profondi. Quando comincia a registrare e pubblicare dischi siamo in pieno boom del grunge, del suono di Seattle che non solo si fa conoscere in giro per il mondo ma influenza anche i musicisti di quegli anni. D’altra parte il cantautorato, soprattutto quello americano del nord, vive un periodo di ridefinizione, in qualche modo di ricerca di nuove strade su cui assestarsi e probabilmente molte cose non vengono immediatamente colte nella loro profondità.
In questi anni Chesnutt si conferma molto prolifico, tra il 1990 e il 2009 ci consegna ben quattordici album in studio, senza contarne un altro paio in progetti paralleli. Dopo la collaborazione con Stipe dei primi due dischi uscirà prima lo sgangherato e un po’ disarticolato, ma prepotente e piacevolmente grezzo Drunk che si apre con una gemma, aggressiva e nervosa come Sleeping Man e che ci regala anche episodi come Naughty Fatalist, Bourgeois And Biblical, Supernatural o Super Tuesday. Questo disco è la ballata con i suoi demoni, quasi necessario per assestarsi ulteriormente e continuare a dimostrare di essere uno dei cantautori più intensi di quegli anni. Anche la critica comincia ad accorgersi di lui, i riscontri live cominciano ad essere più soddisfacenti e Vic da parte sua si impegna a tenere l’alcol a distanza. In questo contesto si creano le condizioni per il quarto album Is The Actor Happy? del 1995 (che contiene l’ormai classico Betty Lonely), ma anche per far decollare la sua carriera. Il disco è in parte legato alla sua partecipazione come attore al film Sling Blade, primo come regista dell’attore Billy Bob Thornton, che vincerà l’oscar come miglior sceneggiatura non originale.
Il 1995 resta un anno chiave nella sua carriera non solo per questo album apprezzato da tutti ma anche per la collaborazione con i Widespread Panic, suoi concittadini, che porterà alla realizzazione di un album assieme dal titolo Nine High A Pallet, in cui canta e scrive testi. Ancora più sorprendente in quell’anno sarà un tributo che gli faranno molti volti noti del panorama musicale, attraverso una compilation per una raccolta fondi, a lui devoluti, in sostegno ai musicisti non coperti da assicurazione sanitaria. Le sue canzoni saranno interpretate da Madonna, Rem, Garbage, Smashing Pumpkins e tanti altri.
Nei successivi album Chesnutt conferma e rafforza la sua poetica, il suo songwriting, ma soprattutto non smette di far entrare la fragilità umana nelle canzoni, senza per questo nascondersi dietro di essa. Si conferma cantautore vero e viscerale. E anche musicalmente la crescita è continua. Apparentemente distaccato dalla realtà dimostra invece nei fatti una grande fame verso la vita e la voglia di sperimentarla attraverso l’arte e in questo percorso si prepara a regalarci un finale tanto potente artisticamente quanto struggente e doloroso umanamente. Tuttavia proprio per la storia che stiamo narrando non dobbiamo mai dimenticare che il percorso è tortuoso, fatto di alti e bassi, di depressione e alcol come rifugio, di canzoni dolorose e di album che non avranno l’esito sperato, nonostante le prime recensioni importanti. Di grande impatto sarà l’incontro tra il suo cantautorato e la vena strumentale e post rock che avviene nelle ultime produzioni, quando nell’album North Star Deserter del 2007 Vic ha in studio con sé sia Guy Picciotto chitarrista dei Fugazi che i canadesi A Silver Mt. Zion.
“…ho un grande rimpianto legato all’artista, perché secondo me dopo At The Cut lui avrebbe davvero avuto la possibilità di scrivere un disco ancora più bello.” Emidio Clementi si riferisce At the Cut che è l’atto conclusivo di Chesnutt. Per certi versi un ricongiungimento con l’esordio Little, l’album in cui evocava il suo mal di vivere e in qualche modo tratteggiava i contorni del fantasma del suicidio. Negli anni il suicidio diventa ben più di un fantasma, a volte Vic ci ha provato, fortunatamente invano.
C’è una vita artistica in mezzo tra Little e l’ultimo At the Cut, in cui è accompagnato in studio da molti più musicisti, ancora Guy Picciotto, ancora il mondo del post rock. Con una forza inaudita in questo disco primeggia la solitudine con cui Chesnutt ha affrontato i buchi neri della sua vita. Quella sua voce spezzata e fragile, ma determinata e spigolosa, riempie il vuoto su cui appoggia ancora una volta, fino a navigare nelle tempeste elettriche delle chitarre, nei territori accoglienti e deserti del post rock. Stavolta il suicidio non lo evoca soltanto, ma gli dedica una canzone intera Flirted With You All My Life. Ci sono tante cose belle in questo disco, sicuramente quello da ascoltare fino in fondo per conoscere Chesnutt, non solo l’artista, ma l’essere umano che è stato. E forse tutta la forza, il coraggio e l’intensità buttate in quei solchi nascono dalla consapevolezza della fine. Il giorno di Natale del 2009, un 25 dicembre come quello in cui scartò con ansia la chitarra in regalo dai suoi genitori, Vic si spegne, dopo qualche giorno di coma a causa di un’overdose, per una grossa quantità di farmaci che aveva mandato giù.
Questa non è la solita storia di droga e rock’n’roll, questa non è la solita storia di rockstar viziate che cadono in depressione, questa è una storia autentica di arte e dolore, di alti e bassi, di montagne russe da affrontare con la propria umanità. Jem Cohen, il regista con cui il cantautore aveva collaborato dirà “Il cliché della spirale autodistruttiva in questo caso è fuori luogo. Vic non è stato vittima del rock’n’roll ma di tristi circostanze e di un sistema sanitario che proprio non funziona”. Lo stesso Chesnutt aveva dichiarato qualche tempo prima: “Potrei morire domani a causa di altre operazioni di cui ho bisogno e che non posso permettermi. Potrei morire da un giorno all’altro, ma non voglio pagare alle compagnie assicurative un solo centesimo di più”. Ricordati di Chesnutt va urlato come hanno fatto i Massimo Volume.
“Quando il suono stride ricordati di Chesnutt/Quando la linea trema ricordati di Chesnutt
Una corona di spine poggiata sul palco/Tra la chitarra e le spie”