Lo scorso giugno è arrivato nelle librerie Hotel del Nord America (Bompiani, traduzione di Licia Vighi), l’ultimo romanzo di Rick Moody. Scrittore americano da sempre accostato a David Foster Wallace e alla corrente letteraria del postmodernismo, Moody compone un mosaico dei nostri tempi attraverso una serie di recensioni lasciate in giro per il web dal protagonista del romanzo. Nelle camere degli Hotel che frequenta si celano le crisi e i fallimenti di un’esistenza, esposti a loro volta sotto gli occhi di tutti dando vita ad un insolito modo di narrare la condizione umana.
Nelle diverse interviste che hai rilasciato dopo la pubblicazione di Hotel del Nord America hai dichiarato di aver preso volutamente le distanze da un altro romanzo a cui stavi lavorando da anni. Avevi la necessità di raccogliere nelle pagine maggiori dettagli su quello che è il tempo in cui viviamo. Una volta constatata la realtà delle cose, qual è stata la tua reazione?
Il mio scopo principale era quello di cercare di rappresentare, in qualche modo, l’abbreviazione, la biforcazione e la moltiplicazione delle coscienze umane da quando l’essere umano interagisce con internet e la società di internet. Sentivo di non dare attenzione ad internet, nonostante la mole di narrativa contemporanea a cui dà vita, e ignorare questi aspetti del nostro modo di vivere attuale, così ho finito per abbandonare la scrittura dell’altro romanzo. È stato come prendere il romanzo alla rovescia. Hotel del Nord America, nel bene o nel male, include internet e gli effetti di Internet. Sono riuscito a prefiggermi un obiettivo attraverso il mio modo di pensare, facendo poi mia la strada per poter raggiungere questo obiettivo.
Dinanzi allo stato della realtà così come la percepiamo, la letteratura riesce a farsi carico del peso immenso che nella narrazione di essa si cela?
Se chiedi alla letteratura di rappresentare la realtà, la risposta sarà probabilmente incompleta. Nessun mezzo può arrivare a carpirla del tutto o in parte, come direbbe Derrida, perché il mezzo di resa non è, e non può essere, la realtà. È un ordine distante dalla realtà. La parte divertente sta nello sfruttare questa distanza e vedere ciò che la distanza ci dice. Così la letteratura non può arrivare alla realtà completamente, ma ci sono alcuni aspetti della letteratura – sto pensando alla coscienza nel linguaggio che la letteratura ha creato negli ultimi cento anni. Mi piacerebbe essere parte di questo impegno continuo.
Hai scelto di raccontare l’America attraverso gli hotel. Questi ultimi hanno vissuto (e vivono tutt’ora) un certo successo, contribuendo a formare un immaginario collettivo che va oltre la letteratura e il cinema. Cos’è rimasto di quel fascino quasi distintivo?
Vuoi dire cosa resta di quell’America dell’entroterra vecchia e sgangherata che cade a pezzi, la stessa che la letteratura e il cinema non possono raggiungere? È certamente ancora lì, anche se ora ci sono, sai, alcune catene di negozi, un Wal*Mart, ecc. Ma queste concessioni sono una sorta di caduta in disgrazia. C’è un ragazzo che si fa di eroina in una stanza del Wal*Mart, mentre fuori dal negozio ci sono alcuni farmaci per il dolore, e teppisti impegnati nella compravendita di armi da fuoco. Ognuno ha una posizione ideologica dichiarata che li induce a voler strangolare il loro cugino. E un sacco di persone non hanno un lavoro. La vecchia America sgangherata, la terra di ignoranza e mito, a quanto pare se la passa bene.
Soffermandoci sulla figura dell’hotel, mi sorge spontaneo pormi domande su quello che è un altro segno distintivo dell’America così come la conosciamo, ovvero il viaggio on the road. In queste camere di hotel si respira ancora quella spudorata voglia di ricercare di se stessi oppure la frenesia dello scorrere del tempo è riuscita a prendere il sopravvento?
I viaggi on the road si realizzano ancora, gli alberghi sono ancora lì. Ho soggiornato in uno veramente bello la settimana scorsa, a Stockbridge, Massachusetts, chiamato Red Lion Inn. C’erano sicuramente dei fantasmi a quell’indirizzo.
In gran parte dei tuoi romanzi e racconti hai ritratto la periferia americana. Come se la passa in questi ultimi tempi?
Non sono d’accordo con la tua premessa. The Diviners, per esempio, era ambientato per lo più a Brooklyn, e Le quattro dita della morte in Arizona del sud, nel deserto. L’idea che io sia uno scrittore della periferia è ormai vecchia. Detto questo, penso che le periferie stiano vivendo attualmente un periodo difficile. Un sacco di giovani, parecchio desiderati dal mercato finanziario, vogliono rimanere in città. Quindi c’è molta povertà in periferia. Non è più lo spazio sicuro di una volta.
Sei uno degli scrittori americani che tutti riconoscono come postmodernista. Come può – il postmodernismo – riuscire a raccontare il mondo di oggi?
Penso che potrei essere un post-post-modernista, appartenente ad un movimento che sposa il pensiero formale di pathos e intensità. Credo nel dolore del cuore umano, e credo anche che raccontare storie in modo nuovo è il percorso ideale per le nuove idee e la nuova formulazione concettuale su chi siamo attualmente.
Nell’era del trolling e fact checking, la scelta di fidarsi di Internet è diventata un’arma a doppio taglio. La distorsione della realtà è sempre a portata di click. In vista di questo fenomeno (e delle miriadi di fake news che circolano al giorno), cosa ne è rimasto di quel realismo necessario a cui si riferiva Wallace?
Questo è probabilmente un punto in cui io sono abbastanza d’accordo con Wallace. Credo che le frodi e le notizie false, ecc, siano state da sempre costruite dentro il linguaggio. Il linguaggio insieme nasconde e rivela. Questo paradosso c’è sempre stato. Parte del prestigio come figura pubblica del Presidente neoeletto (e lo dico mentre odio l’uomo con ogni parte di me stesso) è che lui sa come alimentare mancanza di rispetto e scetticismo verso la capacità dei media di raccontare le storie. Ma nel nostro Paese c’è sempre stata una propaganda mascherata, e ci sono sempre state una cleptocrazia e una plutocrazia mascherate da democrazia. Penso che sia la stessa cosa in gran parte dei governi occidentali, Italia compresa. La verità, tuttavia, continua ad uscire allo scoperto, in una certa misura. Il bicchiere, in realtà, è mezzo pieno.
Come reputi l’uso che ne facciamo dei Social Network? È davvero così nevrotico?
Sì.
Per gli aspiranti scrittori il pulsante Condividi è diventato una sorta di finestra sul mondo attraverso cui mostrare quello che che avviene all’interno della propria camera. Secondo te è una buona modalità attraverso cui farsi leggere?
Credo che il prisma attraverso il quale leggiamo le confessioni sui social network è quello in cui queste confessioni sono piegate dalla forza gravitazionale del digitale in sé. Le confessioni sembrano più disperate di quanto sarebbero di persona. Nello stesso modo in cui la musica contemporanea è stata modificata, e stordita, e omogeneizzata, in streaming, l’idea stessa del sé, la confessione del sé, si è sminuita e omogeneizzata attraverso le reti sociali. In questo momento l’atto eroico di sé, assumendo un “sé” che esista, è nel restare-per-sé, è nel silenzio, scollegarsi e voltare le spalle.
Negli ultimi anni negli USA si è registrato un forte incremento di riviste letterarie. L’editoria riesce a costruire realtà lì dove il mondo accademico ha praticamente fallito oppure no?
Le riviste più recenti sono per lo più in linea col contenuto multimediale in modo che possano mantenere bassi i costi di produzione, ma ce ne sono anche alcune super-fancy che vengono ancora stampate. Credo che il fenomeno si verifica perché l’editoria ha fallito nel riuscire a raggiungere un pubblico letterario. Bene! Allora ci riusciremo noi. Penso che sia un impulso di democratizzazione molto importante.
Sei riuscito a costruire Hotel del Nord America su una delle ossessioni che più ci affliggono. Passiamo ore davanti ai computer e a tutta una lunga serie di dispositivi leggendo recensioni qua e là. Quanto sono importanti?
Le recensioni non sono terribilmente importanti. Ci dicono tanto a proposito del recensore tanto quanto del testo. A volte ci dicono di più sul recensore.
In che modo Internet ha inciso sulla vittoria di Trump? È davvero quel posto ideale in cui i populismi trovano terreno fertile?
Certo, Internet ha reso estrema la retorica popolare. Ha fatto in modo che ogni redneck con una pistola sia riuscito a sentirsi meno solo, e così ogni solitario aspirante jihadista provvisto di cintura esplosiva. Predicatori, ragazzi che picchiano le donne, razzisti, tutti hanno una bacheca da qualche parte dove possono incontrare altre persone con idee simili, dove il loro odio è solo divertimento. Credo che l’impulso populista abbia proprio questa tendenza scritta a grandi lettere. È un modo per dar vita ad un movimento basato sul prendere in giro l’elettore disinformato. Il tizio che sta per diventare Presidente è molto bravo a usare Twitter, che credo sia a volte una forma di espressione veramente idiota. Se puoi dire una cosa in 140 caratteri è quasi sicuro che sia riduttiva e semplicistica. Le risposte letterarie a tutto questo, credo, dovrebbero essere quelle di entrare nella complessità. La risposta letteraria dovrebbe essere quella di contrastare questa forza di semplificazione populista raddoppiando la dose di complessità.
Il risultato delle elezioni americane ha dimostrato come il Tycoon sia riuscito ad ottenere consenso proprio nelle zone periferiche. Come reputi questo dato?
Penso che dimostra quanto la democrazia americana non sia così democratica.
In conclusione, in che modo la vittoria di Trump contribuirà a mutare la narrazione americana?
Vedremo! Ci sono un sacco di scrittori là fuori che sono molto turbati, e sono probabilmente consapevoli che arriverà il loro giorno.