Potrebbe trascorrere solo un minuto o tutti i quarantasei del disco, passare una canzone o dieci e sarebbe difficile accorgersene. Perchè Natural Rebel, l’ultimo lavoro da solista di Richard Ashcroft, è uno di quegli album che scorre liscio senza ostacoli, e per quanto non deluda a dirla tutta non riesce neanche a emozionare. Di sicuro non lascia dubbi: l’ex frontman dei Verve conferma che dopo una lunga carriera è facile avere ben chiara la propria comfort zone artistica e ancor più semplice ancorarcisi, senza rischiare.
Una carenza che però non riesce a essere colmata né dall’esperienza né tantomeno dalla notorietà dell’autore, volto di una band che tra alti e bassi ha fatto la storia del rock britannico. Così la ricerca di sorprese e di brani da protagonista che è inevitabile quando si è alle prese con un nuovo lavoro, resta priva di risposte valide. Il paradosso è che Natural rebel è probabilmente il miglior lavoro da solista di Ashcroft, per la coerenza e linearità dimostrata. Lascia al ricordo la sperimentazione e i tentativi incerti che hanno contraddistinto, e non valorizzato, i dischi precedenti dove anime pop si fondevano con dance, elettronica, indie e chi più ne ha più ne metta, con richiamo anni 70 e schitarrate da notte sotto le stelle. Ma, e non è solo una semplice battuta, manca di verve.
In compenso ci sono tutti gli elementi per un disco completo. C’è l’amore per la moglie Kate Radley, tastierista degli Spiritualized – «Whoever you are/I need to touch your skin/To know I’m alive/And all my dreams wrapped up in you», come canta in All your dreams -, c’è la forza della solitudine «I’m a man in motion, all I need is speed/You better get with it if you’re riding with me», che ripete in A man in motion e c’è l’autocritica, quella di ammettere che la vita non è fatta di hit e di fama «’Cause some of us are born to be strangers/Alone in this world, we seek out danger/And some of us will always be strangers», come ammette in Born to Be Strangers, a metà disco.
Non mancano neanche le parentesi strappalacrime, come il profondo coro femminile di We all bleed o la dichiarazione asfissiante «And in my darkest hour/I’ll look for you» in That’s when I fell it ben lontane dal ricordo del frontman dell’indie rock britannico ribelle. Una scelta plausibile, vista la lunga carriera alle spalle con sei album da solista all’attivo, quella di Ashcroft: soddisfare tutti i sogni in una sorta di “Best of” di emozioni e racconti in musica.
C’è tutto, come un compito ben fatto,“colorato” dentro i margini, che all’improvvisazione e all’istinto però ha preferito la riflessione e l’esecuzione: forse un fremito verrà al 17esimo minuto con Born to be strangers, per poi tornare a essere parte del divano fino alla traccia di chiusura Money money che richiama l’anima rock, e forse un po’ appannata, di Ashcroft. È a questi 5 minuti di musica, come farebbe un direttore d’orchestra, che l’ex frontman dei Verve affida la scarica finale di adrenalina, e quasi l’unica del disco, per lasciare il sapore in bocca di qualcosa di entusiasmante.
Ma se tutto questo si racchiude in una domanda, ossia se si poteva fare a meno di questo disco, rispondere non è semplice. Forse la musica mondiale poteva ma Richard Ashcroft no, dando voce all’esigenza impellente di racchiudere e coronare nelle dieci tracce incise una carriera artistica caleidoscopica, dall’essere band narratrice di un’epoca alla scelta di cantare l’intimità dei sentimenti, ma ancor di più una vita condivisa con un pubblico sempre pressante e una famiglia sempre presente, riuscendo nella musica a trovare l’antidoto alla nostalgia del passato. Perché, come sussurra in That’s how strong, «We walk those streets together/It really was my pleasure». E come ogni camminata che si rispetti, Ashcroft con Natural rebel ne ha scritto la colonna sonora, che si presta ad accompagnare la vita di molti, ma non a cambiarla.