Fin dall’ormai lontano 1997 – anno che lo vide accanto a Frankie HI-NRG MC in quel piccolo capolavoro che fu Quelli che ben pensano – Riccardo Sinigallia è stato una delle figure che hanno segnato in maniera tanto netta quanto spesso defilata la storia di certo pop italiano degli ultimi vent’anni. Sue sono le mani dietro a produzioni storiche legate alla scena romana – Niccolò Fabi, Max Gazzé, Tiromancino fino alle più recenti con Coez e – soprattutto – La fine dei vent’anni di Francesco Motta.
Nelle vesti di produttore come in quelle di cantautore (tre dischi in quindici anni: l’omonimo esordio nel 2003, il bellissimo Incontri a metà strada del 2006 e Per Tutti del 2014) Sinigallia è sempre stato un autore assolutamente riconoscibile eppure mai davvero riconosciuto.
Ciao Cuore – uscito il 14 settembre per la Sugar – a differenza dei lavori precedenti che pure presentavano picchi di rara bellezza (Bellamore, Il nostro fragile equilibrio, Prima di andare via) con le sue nove canzoni – per un totale di trentacinque minuti di musiche e parole – non presenta un momento di stanchezza, un solo istante di debolezza restituendo in maniera limpida e cristallina (come di consueto nel suo maniacale lavoro di produzione) il ritratto di un uomo e di un artista nel pieno della propria – ritrovata – maturità artistica. È un disco costruito – come sempre nell’estetica musicale di Riccardo – dentro melodie semplici e immediate che però sono come avvolte dentro spirali di ricchi arrangiamenti mai costruiti come orpelli ornamentali ma come parte essenziale della sua proposta musicale.
Gli squarci d’intimità che vengono fuori dai solchi dei suoi dischi rivelano una poetica e un modo di raccontare che mai ha nascosto la timidezza verso un ruolo da star ma oggi – rispetto al passato – Riccardo sembra essersi liberato di una certa preoccupazione così che i nuovi pezzi riflettono un’ariosità, una bellezza che si coglie – ed è sempre più raro – fin dal primo ascolto. Ciao Cuore si manifesta così immediatamente come un piccolo scrigno di musica pop nella sua accezione più alta, quella presente in Italia per lungo tempo e poi improvvisamente spezzata da inspiegabili logiche di mercato.
La cifra musicale dell’album sta dentro l’alternanza tra la musica elettronica, un uso disinvolto dei sintetizzatori e la presenza della chitarra, del pianoforte, degli archi che, insieme, conducono a una concezione cantautorale declinata in chiave contemporanea. Un approccio musicale familiare messo però in continuo movimento da spostamenti che spezzano una melodia, che interrompono un passaggio più classico per aprirsi a suoni più divergenti. Il tutto senza che venga alterato quel senso di compiutezza del discorso musicale che da sempre fanno di Sinigallia un vero autore di canzoni con una scrittura che pure nelle sue aperture – che richiamano il Battisti più sperimentale – si mantiene sempre al di qua di una destrutturazione della forma canzone.
Il disco si apre con So delle cose che so su una partitura elettronica che, se chiudiamo gli occhi, sembra condurci in una Roma notturna lungo strade affollate da vite consumate e distratte che ci portano lontano dal centro verso le aree più periferiche fino a che il pianoforte entra con prepotenza quasi a imporre la necessità di una voce, come a voler segnalare fin da subito la coesistenza tra elettronica e un cantautorato pienamente moderno.
Niente mi fa come mi fai tu è una dichiarazione a cuore aperto alla compagna da venticinque anni Laura – “e so che può sembrarti stupido / dirtelo suonando / per anni a testa in giù” – che lascia da parte la timidezza mostrando il pudore in tutta la sua interezza. È forse il brano più semplice e classico dell’album tra un piano quasi minimalista e beat che ne ampliano l’orizzonte.
Sorretta dall’incisiva chitarra di Francesco Motta, Bella quando vuoi si lascia cullare da un ritmo funky fino al ritornello ampio e aperto caratterizzato dall’uso del falsetto e da quel sound che era riconoscibile anche ne La fine dei vent’anni. Le percussioni arricchiscono la seconda parte del brano che è anche una rivendicazione diversa dell’approccio alla musica pop – “Di questi tempi pari / fra i tanti di passaggio / chi dice niente paura e intende niente coraggio”.
Backliner si apre su un basso ostinato e atmosfere elettroniche fino al crescendo che lascia spazio agli arpeggi di chitarra e a una cascata di microscopiche note. La batteria innalza ritmo e sostanza di questo pezzo che, all’interno di un’atmosfera cupa e notturna, si ritaglia lo spazio per un’epica e un omaggio sentito a quella che è una figura fondamentale nella musica dal vivo – il backliner appunto – per il pubblico semplicemente un lavoratore da stage che porta le chitarre e le accorda – prendendosi solitamente il primo boato perché segno tangibile del prossimo inizio del live – e che, invece, per chi si confronta con le tante date di un tour, è spesso figura insieme autoritaria e autorevole, consigliere e guida, risolutore di problemi grandi e piccoli.
Con Le donne di destra Sinigallia infrange con allegria un tabù del mondo del cantautorato impegnato di sinistra. È un ritratto universale eppure così tipico di un certo mondo romano che soprattutto il cinema degli ultimi anni ci ha fatto conoscere, tirato e asciutto nella sua tessitura rock con beat fluidi e sensuali su cui entra la sua voce di Riccardo insieme al suono grezzo da chitarra elettrica blues. È una confessione che colpisce per ironia e spirito d’osservazione e che mescola la critica politica – “Donne di tutto il resto inconsapevoli / con un’altra intelligenza / fatta di luoghi comuni su una bandiera cangiante / come la prepotenza della loro semplicità” – con un’attenzione al lato umano quasi pirandelliana – “E che la loro tristezza la puoi trovare in bagno / Quando non escono la sera / o la mattina dopo / nei Suv coi figli indietro”.
Pubblicato alla fine di agosto, il singolo Ciao Cuore è il punto focale del nuovo lavoro. Con un incipit classico tra note di pianoforte, rumori di fondo e bassi che crescono in lontananza, dopo nemmeno trenta secondi lascia improvvisamente da parte le premesse per una svolta decisa che fa entrare i sintetizzatori come una finestra spalancata su un sound synthwave virando con decisione fino al ritornello con basso e batteria su una struttura classica. Ma è solo per un attimo perché è già tempo di un’atmosfera rarefatta e sospesa che fa da ponte verso l’irresistibile ritornello. 3’33’’ che ne fanno un piccolo manifesto di tutto ciò che il pop cantautorale italiano potrebbe essere e troppo spesso non è.
Ma è nella successiva Dudù che Sinigallia trova il vertice e la sintesi più forte delle istanze che attraversano l’intero disco. Omaggio struggente alla bambinaia della sua infanzia, ai ricordi, al passare del tempo, alle persone che hanno attraversato la nostra vita – è un pezzo che parte su ritmi quasi trip hop, per poi lasciare spazio a sonorità capoverdiane e a un racconto incalzante, avvolgente e sensuale: un nome semplice e buffo a un tempo che però si fa chiave dei ricordi e della memoria con tutti i suoi tornanti e le sue curve. C’è dentro un’educazione sentimentale – “Mezze tette di fuori / e la pelle più chiara quando decidevi tu […] Ci insegnavi a ballare / perché nel ballo c’è quasi tutto quello che uno è” – insieme a tutti quei piccoli segni, simboli, sfumature che solo i bambini sanno cogliere – “sarà stato l’83 e a te, Dudù / ti piaceva mio padre / e anche Bowie, Bob Marley e Peter Tosh / ci sembravi contenta / ma eri triste da prima però Dudù / pulivi casa e ridevi / ci svegliavi e ridevi / e di notte piangevi” – e che da grandi trovano improvvisa e (in)compiuta realizzazione. Il brano si spezza letteralmente in due lasciando spazio a una base elettronica che sembra venir fuori dall’American Dream degli LCD Sound System – come dalla colonna sonora di Stranger Things – e il ricordo – delicato e leggero all’inizio – sembra farsi sul finale quasi disperata richiesta di memoria e del bisogno di riattaccare i pezzi della propria esistenza mentre ci si specchia dentro quella di una donna così importante e così lontana nel tempo – “Ogni tanto io ci penso e mi risale un po’ di felicità / ma mi chiedo se magari in qualche posto / ti ricordi pure tu / ti ricordi Dudù? / i cuscini per i tuffi dai divani / c’eri tu, con le tue mani / ti ricordi, ti ricordi Dudù? / come adesso la mia inadeguatezza / c’eri tu, la tua bellezza”.
A chiudere il disco ci pensano due brani che in modi diversi lasciano per un attimo da parte lo sguardo sulla propria esistenza per ampliarlo a una dimensione sociale. Che male c’è, nata da un testo dell’amico Valerio Mastandrea, è una ballata dolce e straziante in modo minore che racconta della morte di Federico Aldovrandi – lo studente ferrarese ucciso da quattro poliziotti nel 2005 – e cresce insieme alla musica fino a un atto d’accusa che non conosce sfumature – “E così mi ucciderai / Sì, lo farai / Perché non vuoi capire / Per quello che non sai / Mentre colpisci in cinque / Colpisci tutti quelli come me / Che incontrerai nella tua libertà”.
L’ultimo pezzo è il piccolo gioiello che Riccardo – tre anni fa – ha regalato alla colonna sonora di Non essere cattivo del grandissimo e compianto regista Claudio Caligari, film portato a termine grazie alla caparbietà dell’amico comune Mastandrea. È una miniatura cesellata da un arrangiamento delicatissimo che sembra guardare a certa musica sudamericana e che Sinigallia aveva pronto fin dai tempi di Per tutti e che ha trovato invece per fortuna la sua strada lungo le distese di sabbia di Ostia del film e che lega la sua melodia alle immagini sullo schermo e ai volti – tutti bellissimi – di Luca Marinetti, Alessandro Borghi e Silvia D’Amico.
È la conclusione perfetta: una serenità dell’anima che si fa speculare rispetto all’incipit crepuscolare del disco. Ciao cuore scalda l’anima di chi lo ascolta: è un lavoro in cui Sinigallia rinnova davvero la sua cifra stilistica regalando momenti d’intensità, di sincerità e di umanità oggi sempre più difficili da trovare. È un disco per anime solitarie e gentili, un disco che smuove qualcosa, che mette in circolo un senso di appartenenza, una voglia di uscire, di fare, di incontrare. Mantenendo però intatta la leggerezza come nello sguardo della figlia nella splendida copertina, quel misto di sfrontatezza fragilità che solo l’adolescenza sa regalare: ciao core, se rivedemo.