Il 12 marzo, in occasione del Premio Buscaglione, dopo le esibizioni dei primi sei semifinalisti (Ett, L’Ultimodeimieicani, Leandro, N.A.I.P., Osaka Flu e Tōru), saliranno sul palco dell’Hiroshima Mon Amour di Torino i Siberia, il quartetto toscano che il 29 novembre 2019 ha pubblicato il loro terzo Tutti amiamo senza fine, prodotto da Federico Nardelli per l’etichetta Sugar Music in collaborazione con Maciste Dischi. Cosa raccontano i Siberia in questo nuovo disco? Lo abbiamo chiesto a Eugenio Sournia, frontman della band, che ci ha parlato non solo di amore, ma anche dell’importanza di fare quello che piace senza seguire necessariamente le mode, di riferimenti del passato e di un futuro pieno di desideri.
Il 12 marzo sarete i primi ospiti a salire sul palco dell’Hiroshima Mon Amour durante le semifinali del Premio Buscaglione, il premio che si rivolge ai giovani talenti musicali. Ripercorrendo la strada che avete fatto fino a oggi, c’è un consiglio che credi possa essere prezioso per chi vuole emergere e far diventare la musica la propria professione?
Innanzitutto mi fa piacere essere arrivato prima dei trent’anni a realizzare tre dischi con lo stesso progetto. Noi non siamo un gruppo che si può considerare arrivato – cominciamo ora a toglierci le nostre prime soddisfazioni – però il consiglio che vorrei dare è quello di fare sempre quello che piace. Alla fine è molto difficile, se non impossibile, capire quello che vuole il pubblico ed è inutile fare calcoli su quello che può piacere a tutti. Gli ascoltatori apprezzano sempre la sincerità: questo deve essere il motore soprattutto di chi si avvicina alla musica. Chi è agli esordi dovrebbe mantenere la più grande purezza, qualità che il pubblico credo sia in grado di subodorare. Quello che sento spesso dire dall’uomo della strada è: quella canzone riuscivo a scriverla anch’io – ma la difficoltà non sta nello scriverla, tutto sta nello scriverla ed essere sinceri. Ci sono personaggi come Vasco Rossi che hanno basato la loro carriera su canzoni con testi semplicissimi con un linguaggio apparentemente banale o Gazzelle che usa un linguaggio davvero colloquiale con tematiche che sembrano scontate. Devo ammettere che venendo dall’estremo opposto, con la tendenza a complicare, mi rendo conto che questo modo di scrivere funziona. Se io mi mettessi a fare testi come Vasco Rossi verrebbe percepito come artificioso. L’uomo della strada che dice allora anch’io posso scrivere una canzone così sbaglia perché non ha mai provato a scrivere una canzone.
Voi venite da Livorno, una città dove il pubblico più severo ai concerti è composta da musicisti. E’ anche grazie a loro che siete cresciuti artisticamente?
Un musicista ha delle carte in più e in meno per giudicare perché ha una comprensione più profonda del medium. Spesso, però, non ha l’approccio di un “profano” che dice semplicemente quello che gli piace. Livorno è una città che ha una scena underground molto colta. C’è una statistica molto divertente – non so chi si sia preso la briga di farla – che rivela che Livorno è la città con il maggior numero di band per numero di abitante dopo Los Angeles. Effettivamente si tratta di una città dove ci sono musicisti di ogni tipo e provenire da un posto di questo tipo porta a essere abituato sul ricevere critiche. La nostra città si è rivelata una palestra prima di leggere le recensioni sulle riviste di settore.
A proposito di passato c’è un momento in cui avete capito che la musica era segnata sul vostro percorso?
Siamo stati selezionati in modo del tutto a sorpresa per le finali di Sanremo Giovani 2016, ma abbiamo subito l’eliminazione all’ultimo step prima di finire in televisione. Quella fu l’edizione dove c’erano Francesco Gabbani ed Ermal Meta, un anno molto florido per la musica e così fu per noi. Io sono molto testardo quando mi sbarrano la strada e fino a quel momento ero convinto che nella vita avrei fatto l’avvocato. Mi ricordo che, quando siamo stati eliminati, scendendo le scale dissi al mio chitarrista: “Matteo, ho capito che voglio provare a fare il musicista di professione”. Quel poco che avevamo visto di quel mondo comunque ci era piaciuto e siamo andati avanti.
Tutti amiamo senza fine è il vostro terzo album, uscito il 29 novembre scorso. Cantautorato tradizionale e ritmiche contemporanee si fondono indissolubilmente. Qual è l’elemento di novità di questo disco rispetto ai precedenti?
Tutti amiamo senza fine è un disco che nasce dalla volontà di essere più comprensibili e penso sia abbastanza evidente. Due pezzi, Mon Amour e My Love, sono stati scritti dal nostro bassista che ha sempre avuto un approccio più pop alla musica. In generale anche nei temi affrontati abbiamo cercato di far capire al pubblico che siamo ragazzi come loro, mentre nei due dischi precedenti c’era maggiormente una posa, una sorta di intellettualismo. Qui, invece, abbiamo condensato la letterarietà e la profondità in alcuni momenti specifici e lasciato soprattutto una certa dose di spontaneità e leggerezza in tutto l’album.
Qual è una canzone che meglio di altre rappresenta questo disco?
La prima canzone che è anche la title track è un manifesto e funziona come una cornice. Tutti amiamo senza fine è il brano che cerca di far capire che in questo disco vogliamo parlare d’amore e di emozioni, della maniera di viverle, che sia in modo profondo, superficiale, lirico o nobile. Abbiamo vagliato le diverse sfaccettature di questa tematica, abusata sì, ma talmente ampia che non ci si stanca mai di esaminarla. Un brano come Ian Curtis è più fruibile rispetto ai precedenti, però i riferimenti al post punk e a una musica di un certo tipo riecheggiano come la nostra identità più profonda.
C’è un cantautore o una band del passato che secondo te è ancora attuale?
Io penso che Luigi Tenco sia la figura più emblematica di sempre perché è un artista classico. È riuscito ad andare oltre la sua biografia che avrebbe potuto connotarlo e ha usato come arma di forza la sua scrittura che è davvero piana. Il suo italiano è di marmo, non invecchia. Ha scritto delle parole semplici, che restano indelebili. I nostri arrangiamenti, per citare Amadeus, rimangono sempre un passo indietro rispetto ai testi. Io ho un guilty pleasure per alcuni artisti trap come Ketama, però il mio dubbio è che essendo così contemporanei fra vent’anni non saranno capiti. Sono tantissimi i riferimenti contemporanei che magari passeranno inosservati domani. Oggi la trap si appoggia a delle tribù, a delle sottoculture che esistono e che sono in grado di recepirti immediatamente. Noi affrontiamo temi ampi e trasversali, ma non c’è quell’immediato boost. Il nostro pubblico è composto da persone che hanno tra i 20 e i 30 anni, mentre i trapper si rivolgono a una fascia teen è anche quella che dà un’impennata maggiore agli ascolti e alle vendite.
Se avessi una sfera di cristallo cosa vorresti vedere nel vostro futuro?
La nostra musica si trova a metà tra quella più commerciale e quella un po’ più colta. Per parlare del nostro futuro guardo ai Baustelle, che è il gruppo a cui più spesso siamo accomunati, o Lucio Corsi. La nostra ambizione sarebbe quella di resistere al passare del tempo. Se avessi una sfera di cristallo mi piacerebbe un percorso analogo a quello dei Baustelle o degli Zen Circus, costruirci una fanbase solida, legata all’evoluzione del nostro gruppo. E poi sarebbe bello cambiare un po’ pelle come abbiamo fatto in questi tre dischi: oscillare e non avere una formula da ripetere. In questo disco, per esempio, ci siamo sentiti più leggeri e giovanili, ma nel prossimo potremmo passare a terreni più sperimentali. La mia speranza è quella di trovare un pubblico disposto ad accompagnarci sempre in questo viaggio.