Recalcati, tra nuove melanconie e il paradigma Salvini

Melanconia, desiderio, tempo: sono queste le parole del discorso costruito da Massimo Recalcati intorno a quello stato psicologico che oggi chiamiamo più comunemente, e spesso erroneamente, “depressione”. A ben guardare, l’elemento fondamentale del titolo è l’aggettivo “nuove”, relativo a “malinconie”. Come spiegato nel volume, esso è da interpretare pensando a quelle “vecchie”, cioè alle forme di malinconia teorizzate da Sigmund Freud in Lutto e malinconia. Fu quest’ultimo a definire la malinconia come “lutto perennemente incompiuto”, come atteggiamento di un soggetto “preso in una pervicace adesione all’oggetto perduto”.

Dunque, il malinconico è schiavo di una non accettazione della perdita, la quale, non essendo simbolizzata dal soggetto, continua a perseguitarlo come se fosse una presenza vera e propria. Centrale per comprendere l’essenza di tutte le malinconie è il capitolo La colpa di esistere, dove Recalcati ci ricorda che il soggetto malinconico vive la Legge come un Ideale rispetto al quale il proprio essere appare indegno, inadeguato e pertanto colpevole. Il senso di inadeguatezza, però, non investe il solo piano morale; il malinconico percepisce il proprio corpo come un oggetto privo di senso, come una “protuberanza assurda”, una “presenza assolutamente contingente e di troppo”.

Dopo aver delineato i tratti caratterizzanti della malinconia, lo studioso spiega gli elementi di novità che accompagnano le nuove patologie, dimostrando il principio secondo cui esse non si contraddistinguerebbero per un’elucubrazione delirante o per una ruminazione incessante sul senso di colpa (come quelle freudiane) ma per un vissuto definito come “esperienza della chiusura”, come contorsione dell’apertura, difesa, barricamento. Questa pulsione di matrice neomalinconica prende così il nome di “pulsione securitaria”, altrimenti spiegata dall’autore come radicalizzazione patologica di una normale e umana tensione all’autoconservazione: si pensi all’isolamento adolescenziale di cui il fenomeno degli hikikomori è esemplificativo.

Un aspetto essenziale su cui l’autore invita a ponderare per comprendere la natura delle nuove patologie è la dipendenza dai dispositivi tecnologici o, per meglio dire, dall’opportunità che essi ci offrono di essere connessi. Questo bisogno di essere connessi – necessità sperimentata ormai da tutti – ridisegna l’orizzonte entro cui il malinconico si rapporta con l’assenza e con la presenza. A questo proposito Recalcati parla di “culto sfrenato della presenza”, rituale finalizzato a esorcizzare melanconicamente l’esperienza insopportabile dell’assenza. Non avendo spazio per l’assenza, il malinconico si aggrappa disperatamente all’ “iperpresenza ingombrante dell’ oggetto”.

La parte più intrigante del libro è sicuramente quella in cui lo studioso mette alla prova le tematiche discusse in precedenza alla luce di un discorso di tipo sociopolitico. Al fine di inquadrare i movimenti che attraversano il piano sociale, l’autore invita a considerare quelli che secondo il suo punto di vista sono i due paradigmi clinici innestati sul terreno delle nuove dipendenze: il paradigma securitario – di cui si è detto – e la clinica del vuoto. Secondo lo studioso si verificherebbe, nel nostro presente, un’oscillazione tra questi due modelli.

Se l’immagine chiave della clinica del vuoto è il bordello, che si erge a simbolo di una volontà di godimento senza barriere o di una vocazione maniacale (nella stessa sezione vengono spiegate l’anoressia e la tossicomania), l’oggetto esemplificatore della pulsione securitaria è la prigione, declinata oggi nel simbolo del muro (si pensi al muro tra Stati Uniti e Messico, ad esempio). Molto efficace, in questo capitolo, il richiamo alla distinzione tra la pulsione gregaria studiata da Freud e quella securitaria dei nostri tempi. In sintesi, apprendiamo che quest’ultima è una “perversione di quella gregaria”, è qualcosa che diventa patologia dal momento che l’esigenza della protezione della propria vita-di per sé connaturata all’uomo- si confonde con una condizione di asservimento (la rinuncia alla vita in cambio della sua difesa).

Il punto del libro che stabilisce un ponte con la scena politica attuale è proprio questo passaggio. Per Recalcati parte della politica attuale si regge su un paradigma securitario nella sua inclinazione paranoica. Rivelando che il confine si pone come il “nuovo oggetto pulsione” , l’autore si spinge verso un’operazione tanto estrema quanto scivolosa: il “paradigma Salvini” viene interpretato come il simbolo di questa nuova pulsione securitaria. Si avanza l’ipotesi che con lo scorrere del tempo il paradigma-Berlusconi (edonismo, piacere maniacale, clinica del vuoto) sia stato soppiantato da quello salviniano. Se senza dubbio è possibile riscontrare questa tendenza, resta però difficile credere a una teorizzazione così semplicistica del successo dei partiti xenofobi. Resta arduo convincersi del fatto che la psicologia delle masse sia regolata da paradigmi uniformanti che si alternano seguendo il ritmo delle fasi storiche.

Ma è l’autore stesso a ricalibrare la propria posizione quando mostra il limite della posizione – ancora più estrema – di Deleuze e Guattari, quando avevano suggerito l’idea che i totalitarismi novecenteschi fossero la proiezione del desiderio delle masse di essere dominate. Altro riferimento tenuto in considerazione dall’autore è lo studio – ormai un classico – di quel pensatore eclettico che fu Wilhelm Reich. In Psicologia di massa del fascismo, infatti, Reich si era spinto ad affermare che la Germania nazista non si ribellò a quel sistema totalitario perché ne desiderava, in quel particolare frangente storico, i sistemi oppressivi. In qualsiasi modo si interpreti la posizione di Reich, resta il fatto che il suo studio rimane un punto di riferimento, soprattutto per la questione del rapporto tra potere e repressione della libido. Se questa non viene soddisfatta – aveva intuito Reich – essa può rifluire come passione distruttiva e sadica da impiegare come motore per fomentare le atrocità del nazismo e della guerra.

Da questo terreno di complessità emerge una verità inconfutabile: la messa in evidenza del fatto che il mentale non è mai totalmente sovrapponibile al sociale. Anche se, sicuramente, aveva ragione Freud affermando che “il mentale non è mai separabile dal sociale”.

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