Rayuela | Nel contro-romanzo di Julio Cortázar

La Rayuela di Julio Cortázar compie sessant’anni. Quando nel giugno del 1963 Editorial Sudamericana pubblica il romanzo d’assalto alla letteratura dello scrittore argentino, Cortázar poteva intuire, ma non prevedere, il suo impatto. Rayuela sarebbe diventata una delle opere di riferimento del boom latinoamericano che negli anni Sessanta fece spopolare gli autori sudamericani tra i lettori, ma il suo destino non si fermò là; dalla sua prima edizione, Rayuela viaggiò tra i decenni per farsi leggere e amare, disordinare le anime dei suoi lettori. Se anche non poteva prevedere il futuro, Cortázar era consapevole di avere lavorato per anni sulla Rayuela perché prendesse la forma di un originale anti-romanzo – una contronovela –, un affascinante rompicapo, un libro-mondo e labirinto che asseconda la fantasia del lettore, e riesce ad assumere forme e angolature molteplici. Rayuela è un libro concepito di modo che si possa leggere almeno due volte: una lettura tradizionale che segue la successione classica delle pagine, e una lettura avveniristicamente ipertestuale, danzante, che affonda in profondità, e porta il lettore a saltare e muoversi tra un capitolo e l’altro secondo le indicazioni scritte dallo stesso Cortázar. Un terzo modo di leggere la Rayuela è quello di seguire l’ordine scelto dal lettore segugio, una mistura di caos e istinto che è un brancolare nel buio coi piedi sospesi per l’aria. Lo scopo dello scrittore argentino è quello di coinvolgere il lettore a giocare con il testo. Rayuela si ricrea di continuo, ed è questo lo spirito del gioco del mondo.

La dimensione del gioco è molto importante nella scrittura di Cortázar, in tutta la sua opera. Il titolo stesso del romanzo – Rayuela – è ispirato a un gioco per bambini, la classica campana con le caselle disegnate per terra, e il salto su un piede alla ricerca del Cielo. Così il protagonista Horacio Oliveria vaga alla ricerca del Cielo – il Centro di sé stesso – saltellando da una parte all’altra, dalla Parigi fantasmagorica all’altro capo del mondo dell’Argentina, il protagonista saltella diviso a metà tra due terre e continenti, scollato dalla madrepatria e altrettanto dall’Europa. Difficile non riconoscere in Oliveira un vago riflesso di Cortázar, argentino che visse e morì a Parigi; altrettanto difficile dire che Oliveira sia Cortázar, che non ha voluto mai trasfigurarsi nei suoi personaggi, perché scrivendo Cortázar non sapeva mai dove andava a parare, e scrivendo ci ha sempre tenuto a pennellare di magia la realtà, a fantasticarci sopra come un bambino. “Oggi pomeriggio mi metto a scrivere Rayuela e non so cosa succederà”, confessava Cortázar a Mario Vargas Llosa camminando con lui per le strade di Parigi. “Scrivevo larghi passaggi di Rayuela senza sapere dove collocarli né a che cosa poi servissero”, raccontava in un’intervista.

Bisogna immaginare felice Cortázar di scrivere la Rayuela. L’innocente assalto di gioia della scrittura di Cortázar si trasferisce al lettore, che diventa il complice e insieme l’avversario del contro-romanzo. Dentro Rayuela ci sono ricordi e lampi di notti parigine e vagabondaggi, “mucchi di foglietti e quaderni” scritti di passaggio nei caffè, appunti che poco alla volta prendono forma, e si incarnano nella sostanza di Horacio Oliveria, antieroe spaesato nelle sue odissee alla Leopold Bloom, o della Maga, dietro cui sta forse nascosta la figura contorta di Edith Aron, la sua vaga ombra riemersa da un incontro su una nave o all’entrata di una libreria. Con in mano gli appunti e le pagine, Cortázar ha davanti diverse ipotesi del romanzo; procede seguendo impulsi a zig zag, andando avanti e indietro, rimescolando. E così dentro Rayuela c’è la scrittura fantasiosa di Cortázar, la libertà dell’improvvisazione, e un continuo consumo di mate che ci sconfina verso il Sur, in una sovrapposizione di tempi e luoghi che è una contorsione di passato presente e futuro; ma dentro Rayuela c’è soprattutto gioco e realismo magico, là dove Julio Cortázar ci tiene a rimarcare la natura fantastica del libro, la sua invenzione e la maniera in cui è riemersa dal processo fisico della scrittura. Il gioco del mondo è un universo fantastico caduto dalla manica della giacca a vento di Cortázar, un atto d’amore per la parola scritta, scomposizione cubista e visione.

«Quello che so per certo è che un giorno d’estate, con un caldo spaventoso (doveva essere Buenos Aires) ho visto dei personaggi impegnati in una serie di azioni totalmente assurde. Erano affacciati a due finestre divise da pochissimo spazio ma con quattro piani sotto e cercavano di passarsi un pacchetto di erba mate e dei chiodi. (…) mi sono reso conto che stavo scrivendo una vicenda che si svolgeva a Buenos Aires, ma che il protagonista di quella storia aveva un passato a Parigi. E ho capito che non potevo continuare a scrivere il libro così. Dovevo mettere da parte quei due capitoli e voltarmi indietro, dovevo andare a cercare Oliveira, dovevo andare a cercarlo a Parigi.»

In questo passaggio Cortázar sta parlando del capitolo 41, ambientato a Buenos Aires in una giornata di afa e camicie sudate a batter chiodi al muro. È il capitolo da cui ha origine tutto – l’origine du jeu – quando Oliveira, il vecchio amico Traveler e la moglie Talita, si passano mate e chiodi attraverso un asse di legno da un appartamento all’altro, in uno dei momenti più surreali del libro. Lo strato di surrealtà è un altro elemento vitale della Rayuela. Il glabro Cortázar, affetto da gigantismo, lungo come un bronzo di Giacometti, ammalinconito dalla poesia di Keats e i racconti di Poe, arriva a Parigi dopo aver vinto una borsa di studio, attirato e risucchiato dalle nuvole di latta dell’emisfero boreale, e là si sente un pesce che nuota e sguazza a suo agio nelle acque cristalline e distorte del surrealismo. C’è un certo modo di andare alla deriva in Horacio Oliveira alla ricerca del suo Centro, un modo di situarsi dentro la città come nella Nadja di André Breton; la stessa Maga è un altro modo di essere Nadja, un modo di camminare dentro la città, una maniera di incontrarsi, imbattersi in un appuntamento vago sul Ponts des Arts o alla rue Valette, scoordinarsi nell’infinita mappa della città che continuamente si ricrea, sfogliando una volta e una seconda volta, e ancora una volta Rayuela. “Camminavamo senza cercarci pur sapendo che camminavamo per incontrarci”. I primi capitoli sono un incanto da cui è facile lasciarsi sequestrare. Cortázar reclama possesso con le parole, il lettore cede e non si sottrae al patto.

Giovane Cortázar con la madre in Argentina

Potenzialmente Rayuela non si esaurisce mai nella sua continua possibilità di lettura. Ha una maniera di estendersi e dilatarsi al di fuori delle nozioni di spazio, tempo, e lingua. È un ponte geografico dentro una città, un banale ponte sulla Senna; un ponte immaginario che connette terre, sfonda il classicismo e dà un pugno allo stomaco della retorica; un ponte di fuga dalla “serietà” e dal “barocco letterario” da cui Cortázar voleva tenersi alla larga; un ponte che ci fa scorgere nella figura dello scrittore Morelli l’autore segreto, il pensatore occulto di un nuovo modo di scrivere storie, le riflessioni a piè di pagina di Cortázar, un’aspirazione a rompere gli schemi, le note scritte in presa diretta, frammenti meta-narrativi dove si lascia intendere che il totem è la ricerca di una autenticità, di una purezza, di un’ironia; “si trattava di trovare un linguaggio che non fosse letterario”. La terza parte di Rayuela, quella che Cortázar chiama facoltativa – capitoli dei quali si può fare a meno –, contiene in realtà il bozzolo luminoso dell’opera, le sue segrete mutazioni, l’apertura alare del contro-romanzo. Allora ci si sposta tra i capitoli, tra materia e anti-materia, tra realtà e surrealtà, ci si avventura su una pagina a caso della Rayuela, e la si fa parlare, distorcere come la cera di una candela.

È triste giungere a un momento della vita in cui è più facile aprire un libro a pagina 96 e iniziare un dialogo con il suo autore, da caffè a tomba, da annoiato a suicida, mentre ai tavoli accanto si parla dell’Algeria, di Adenauer, di Mijanou Bardot, di Guy Trébert, di Sidney Bechet, di Michel Butor, di Nabokov, di Zao-Wu-Ki, di Louison Bobet, e intanto nel mio paese i ragazzi parlano, di cosa parlano i ragazzi del mio paese? (Capitolo 21)

Muovere le pagine da una parte all’altra, dal capitolo 21 al 79, diventa un gesto naturale, una possibilità del lettore di situarsi nelle parole, un rincorrere l’autore per il colletto della giacca, afferrarlo per dirgli – ma cosa pretendi che faccia –, rompersi dentro fino a cedere. L’autore sta zitto, e intanto la carta diventa una compagna, perché è su carta la naturale forma d’espressione del libro, la sua fisicità permette lo spostamento compulsivo tra le pagine, l’atto delle mani di sfogliare è implicito nella partitura della Rayuela, la sua piena lettura è fisica come un atto d’amore. Ci sono momenti in cui la Rayuela ti parla – persino in gliglico, la lingua inventata da Lucia, da Horacio – e momenti in cui la Rayuela ti possiede – e allora suona. Momenti musicali del racconto, parole che suonano e battono con un ritmo jazz, che ci buttano a terra come un blues, scrittura carnale, il suono di una jamming session inciso sulla carta, pulsante swing morelliano. È come entrare nella testa di Joyce e ascoltare Charlie Parker che ci suona dentro. Il punto più alto della scrittura jazz di Cortázar resterà forse un racconto come Il persecutore, l’abbozzo preparatorio alla Rayuela, “una serie di ansie, di ricerche, di tentativi” sull’improvvisazione e la libertà della musica jazz. Muoversi tra le pagine della Rayuela è pure sentire suonare e accendersi questa libertà, come quando ci troviamo immersi negli incontri con i compagni del Club del Serpente, e una mano fa suonare Jazz Me Blues, e le parole di Julio prendono il volo e ci portano altrove, in una terra dove i confini non hanno più alcun senso, e siamo aperti al mondo, perché il mondo è un tutto dove Ella Fitzgerald canta per noi tutti.

“e così va il mondo e il jazz è come un uccello che migra ed emigra o immigra e trasmigra, saltabarriere, burladogane, una cosa che corre e si diffonde e stanotte a Vienna sta cantando Ella Fitzgerald mentre a Parigi Kenny Clarke inaugura una cave e a Perpignan balzano le dita di Oscar Peterson, e Satchmo ovunque con il dono dell’ubiquità che gli ha concesso il Signore, a Birmingham, a Varsavia, a Milano, a Buenos Aires, a Ginevra, nel mondo intero, è inevitabile, è la pioggia e il pane e il sale, una cosa assolutamente indifferente ai riti nazionali, alle tradizioni inviolabili, alla lingua e al folklore; una nuvola senza frontiere, una spia dell’aria e dell’acqua, una forma archetipica, anteriore, sottostante, che riconcilia messicani e norvegesi e spagnoli e russi, li reincorpora al dimenticato oscuro fuoco centrale, torpidamente e malamente e precariamente li restituisce ad una origine tradita, indica loro che forse potevano esserci altre vie e che quella presa non era l’unica né la migliore, o che forse potevano esserci altre vie e che quella presa era la migliore, ma che forse ce n’erano altre più dolci da percorrere e che non le presero, o le presero a mezzo” (capitolo 17)

Sconfinare e giocare con la scrittura, recuperare l’ironia: la sentiamo addosso la felicità di Cortázar di raccontarci una storia, di tuffarsi tra fantasticherie e ricordi, masticarli in bocca come tabacco fino a renderli ubiqui e trasversali. Con questo istinto di possesso sul mondo delle parole, e la vocazione ad “andare dal disordine all’ordine”, Cortázar va avanti nella sua rayuela, e lo fa mutando in cento pelli diverse. Con il suo modo cronopio e eccentrico di osservare il mondo, con l’umorismo (“non sospetterà mai d’avermi condannato a leggere Spinoza”), con un canto d’amore alla fantasia riemerso dal costato di uno sradicato, con quel modo stralunato di procedere a zonzo alla ricerca del Centro, del Cielo, dell’eterno gioco in mezzo a uomini e donne troppo distratti perché troppo cresciuti e contaminati. Così la Maga è un centro, perché la Maga è tragica, ma pure l’eternamente ragazza che gioca alla campana in mezzo alla devastazione della vita. La Maga è un’ipotesi, “una qualunque via della circostanza”. Un tentativo di trovare l’unità o l’armonia o il Mandala, proprio nel mezzo del movimento inconcludente e crudo che è la vita.

Cortázar per le strade di Parigi

Scoppiavano terribili discussioni su Bioy Casares, David Viñas, il padre Castellani, Manauta e la politica del YPF. Talita finì per capire che per Oliveira era esattamente lo stesso stare a Buenos Aires oppure a Bucarest, e che in realtà non era tornato ma che l’avevano riportato lì. Sotto ogni argomento di discussione circolava sempre un’aria patafisica, la triplice coincidenza in una istrionica ricerca di punti di vista che spostassero dal proprio centro l’osservatore o la cosa osservata. (Capitolo 40)

Quando scrive Rayuela, le preoccupazioni di Julio Cortázar sono soprattutto di natura estetica e letteraria. Horacio Oliveira è un mezzo nichilista risucchiato dall’assurdo, travolto da grandi e misteriosi fiumi metafisici; la sua andatura è puro movimento: se ne va a sentir concerti senza un perché, si ferma a dormire per strada tanto per dormire, incappa nelle avventure della notte e viene rispedito a Buenos Aires per una combinazione. Rayuela è seguire questo movimento, il corso estraneo della vita. “Quello su cui mi sbagliavo – e ho già chiesto scusa a molte donne – era il concetto di lettrice-donna, di lettrice passiva”. Qualche anno dopo la pubblicazione, Cortázar farà marcia indietro su un aspetto della Rayuela; definisce il maschilismo latino-americano come un flagello della sua America Latina, e fa auto-critica sul concetto di lettrice-donna. Immaginando allora un’evoluzione di Horacio Oliveira, pensa a un uomo che ha attraversato una tappa, la tappa metafisica della Rayuela, ma che continua a saltellare alla ricerca di nuove scoperte e “acquisizioni”. “Mi sono reso conto che essere uno scrittore latinoamericano significava fondamentalmente essere un latinoamericano scrittore: bisognava invertire i termini”. Gli anni in cui scrive la Rayuela, sono quelli in cui lo scrittore si avvicina alla militanza politica: l’argentino comincia a prendere coscienza sudamericana, a poco a poco si fa portavoce dei diritti umani, della lotta contro i regimi di destra nelle terre latinoamericane; la sua barba somiglia sempre più a quella del Che, Julio ha maturato uno sguardo e sembra essersi riconciliato con il Sur. “Bisognava superare un guado: vedere il prossimo non solo come l’individuo o gli individui che uno conosce, bensì vederlo come società intere, popoli, civiltà, insiemi umani.”

“Il tempo era deliquescente, qualcosa come cioccolata finissima o pasta d’arancio della Martinica, in cui noi ci ubriacavamo di metafore ed analogie, cercando sempre di penetrarvi.”

La scossa metafisica di Rayuela riuscì a ispirare la generazione dei Sessanta, la colpì come una sassata; soprattutto i giovani lettori riconobbero l’ombra di un volto, di una mano che sfoglia dubbiosa; la sua influenza sulle generazioni successive arrivò a toccare lettori acrobati, narratori e aspiranti. Ci si potrebbe domandare se ancora oggi la Rayuela resista al passare degli anni. ¿Olvidamos a Cortázar? – si chiedeva qualche anno fa un articolo pubblicato su Letras Libres. Nell’indagine sull’eredità di Cortázar, il sospetto è che per le nuove generazioni di narratori di lingua ispanica, lo scrittore argentino fosse diventato uno “zio”, la Rayuela un libro esistenzialista ritrovato nelle librerie dei genitori. È probabile che un lettore contemporaneo possa trovare nella Rayuela la pulsazione di un tempo andato, luoghi che appartengono a precisi momenti, strade disordinate e personaggi-riflesso di un’epoca che oggi non muoverebbero un passo senza una mappa, perdute sonorità jazz, camminate disarticolate e sentimentali, ricerche di un Centro in posizione curva, dubbi esistenziali messi da parte da un rassicurante algoritmo – e tuttavia Rayuela è l’opera innovativa che Cortázar ha lanciato sul futuro come la pietruzza nel gioco della campana, un libro a livelli, che il lettore può attraversare per intero a passo di saltello godendo della sua diversità e infinita possibilità di lettura. Rayuela non è un esercizio formale o di una ricerca di stile; è un diluvio di sentimenti. Un libro che si inizia a leggere da demente, e si finisce per chiudere da posseduti – e dunque, si riapre da solo magicamente, per riscoprirlo. Bisogna allora immaginare felice il lettore della Rayuela, anche a sessant’anni dalla sua prima edizione. La sua forza artistica sta nel sovvertire, rimescolare le acque, destrutturare. Rovistare tra i marciapiedi di Lutezia o i pomeriggi porteñi, tra danzatori di tango e cantori di blues, rovistare in Borges e Klee/Mondrian e Ellington e Eraclito l’Oscuro, trovare diritto di cittadinanza nel mondo intero, pluri-estendersi oltre la propria percezione e i propri occhi e la propria lingua e il proprio battito cardiaco, attraversare labirinti e fiumi metafisici mentre ci bagna una pioggia assurda e abbiamo buttato via l’ombrello.

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