No, non è un caso che Rap. Una storia italiana (Baldini & Castoldi, 2017) di Paola Zukar, la storia dell’esplosione radiofonica (e non) del rap nostrano tra il 2006 e il 2016 raccontata da un’insider, sia uscito a poco più di un anno di distanza da Numero Zero, il documentario di Enrico Bisi che di quel movimento cercava invece di raccontare le origini negli anni ‘90. Non che si tratti di qualche elaborata operazione editoriale, sia chiaro, ma il tempismo e la profondità di questi due lavori testimoniano ulteriormente come, con l’arrivo della seconda generazione (se non della terza, quella trap), la scena hip-hop nel nostro paese abbia raggiunto definitivamente la maturità per guardarsi indietro e metabolizzare il proprio passato.
Le strade di Genova, nel 1984, erano molto lontane dalle strade di Los Angeles o di New York, ieri come oggi, ieri più di oggi. Non esisteva quell’immaginario, non esistevano quei colori, quella musica, quegli atteggiamenti, quelle mosse, quelle novità, tutte assieme. (Paola Zukar, Rap. Una Storia Italiana)
Paola Zukar è, tra le altre cose, la manager di tre pesi massimi come Fibra, Marracash e Clementino: tre che hanno sempre cercato nel corso della loro carriera, con risultati più o meno buoni, di saltare lo steccato, di rivolgersi a una realtà più grande della loro. Che hanno insomma tentato – e, a giudicare dai numeri, riuscendoci – di costruire un immaginario italiano del rap, che non ne tradisse lo spirito originario ma allo stesso tempo fosse plausibile, in un paese come il nostro, così lontano dall’America metropolitana: il Paese del Festival di Sanremo, la Terra dei Cachi e dei Modà, con l’amore giurato e spergiurato strillando con la mano poggiata sul cuore, destinato a trionfare su tutte le avversità, ovviamente asessuato. Fibra ha trovato la sua strada facendosi odiare, con la forza dei suoi ritornelli e una buona dose di marketing, Clementino assorbendo la storia napoletana e finendo per esibircisi, a Sanremo, decidendo consapevolmente, come viene raccontato nel libro, di rispettarne gli stilemi, piuttosto che tentare di sovvertirli rischiando di cadere nel ridicolo.
“And if I was your man then I would be true, the only lying I would do is in the bed with you.” (Pharacyde, Passin’ Me By, 1993)
“Chiudo gli occhi e penso a lei, il profumo dolce della pelle sua è una voce dentro che mi sta portando dove nasce il sole. Sole sono le parole, ma se vanno scritte tutto può cambiare. Senza più timore te lo voglio urlare, questo grande amore.” (Il Volo, Grande Amore, 2015)
Ma se c’è una cosa che ha rallentato lo sviluppo di un rap mainstream in Italia, secondo Zukar, è stata la lingua. Come poteva attecchire, d’altronde, un genere fondato sulla parola, rigorosamente in inglese, quando una fetta inquietante d’Italia crede ancora che Celentano abbia scritto Stand By Me e che Clooney abbia realmente la voce di Pannofino? Se i nostri genitori hanno potuto apprezzare Hendrix o i Beatles senza capire una singola parola di ciò che dicevano, questa barriera ha impedito alla generazione successiva di apprezzare in toto il lavoro dei maestri del rap, che richiedeva una conoscenza tutt’altro che basilare della lingua inglese. Da un lato, questo focalizzarsi sul ritmo, sul beat, di un’intera generazione di fan e, perché no, di artisti, ha forse reso chi scriveva rap in Italia più libero dal peso asfissiante della tradizione, dai paragoni ingombranti con una realtà più matura. “Se non capisci le parole, puoi sentire il funk”, sosteneva Neffa. Dall’altro, però, questo ha portato le radio a non trasmettere i pezzi degli artisti americani, con la notevole eccezione di Eminem (per tutta una serie di ragioni), restringendo terribilmente il numero di ascoltatori esposti a quelle sonorità, a quell’immaginario. “It’s the economy, stupid!”: lo diceva Bill Clinton, ma sono certo che Jay-Z sottoscriverebbe.
Le discografiche e i media italiani sono comprensibilmente complici di queste scelte, per il semplicissimo motivo che guadagnano mille volte di più a produrre e vendere prodotti nazionali talora acerbi e mediocri piuttosto che promuovere prodotti internazionali maturi ed eccelsi che non li fanno guadagnare molto. Ha senso. È il nostro mercato. (Paola Zukar, Rap. Una storia italiana)
E economica è la spiegazione fornita da Paola Zukar dell’aria un stagnante che si respira nella musica italiana: con il 40% di disoccupazione nella fascia tra i 18 e i 25 anni, è difficile pretendere che il primo pensiero di un ragazzo sia comprare un album o andare a un concerto. È una questione di priorità. Che sia tutta una questione di budget, o la punta dell’iceberg di un profondo distacco venutosi a creare in Italia tra cultura giovanile e cultura istituzionale, quella con la C maiuscola, poco importa. La sostanza è che, in parte per i motivi esterni sopracitati, in parte per un suo rifiuto consapevole quanto doloroso di certe logiche capitalistiche – se vogliamo chiamarle così – per anni, il rap in Italia era rimasto economicamente e culturalmente marginale.
“L’hip hop non è una religione, è arte, è cultura, è musica, è libertà. La chiusura di certi «talebani» dell’hip hop in Italia mi sembra simile al cannibalismo. Questa cosa è tipica delle sottoculture italiane, mentre all’estero non si applicano gli stessi meccanismi” (Paola Zukar, Rap. Una storia italiana)
Nel libro traspare tutto lo scetticismo di chi scrive verso la chiusura mentale e la mancanza di prospettiva, disciplina e pianificazione di un certo underground italiano, che in questo senso rappresenta un unicum, paradossalmente lontanissimo dal modello statunitense. Ma questa ricerca politico-poetica di purezza, ammirevole quanto frustrante, è qualcosa che trascende i confini del rap, è qualcosa di viscerale per chi è nato qui. Sarà la forma mentis del liceo classico, non so, ma, a pelle, per fare un esempio, l’idea che Kanye collabori con Rihanna e un tintissimo Paul McCartney, peraltro in una canzone orrenda, ci sembra sbagliata, c’è poco da fare. Ma è lo stesso sentimento che ha fatto rabbrividire i nostri padri vedendo Bob Dylan tessere gli elogi di una Chrysler nel bel mezzo del Superbowl, la messa laica americana, mentre in sottofondo lui stesso canta “I used to care, but things have changed”. Per non parlare poi di quando allo stesso Dylan venne in mente di cantare per Karol Wojtyla: era il ’97, e il caso vuole che scelse di farlo proprio a Bologna, dove la scena hip-hop italiana era nata e cresciuta. Il tutto, proprio nell’anno in cui Radio Deejay riusciva a riempire il Forum di Assago, per la prima volta nella storia, di amanti del rap: l’ormai celeberrimo Mentos Hip HopVillage. Sull’occasione fallita rappresentata da quella serata, con Albertino e gli artisti non graditi lapidati a colpi di mentine incoscientemente fornite dallo sponsor, vi lasciamo alle parole di chi quella sera c’era, intervistato da Bisi in Numero Zero.
Se il fascino perverso della “riserva indiana”, lo scontro tra venduti e puristi è insomma una storia vecchia quanto il mondo, la “retromania” à la Simon Reynolds sembra invece indifferente a confini e culture: è un fenomeno generazionale. E l’hip-hop ne sembra particolarmente afflitto, con serie come The Get Down o anche un film come Straight Outta Compton che sembrano quasi costruite con l’unico scopo di dar vita ad un mito fondativo della scena (ne avevamo già parlato qui, per chi fosse interessato). Ed è paradossale questa continua necessità di riaffermare le proprie origini, l’unità delle quattro discipline (MCing, DJing, Writing, Break), soprattutto oggi che l’hip hop è diventato il genere musicale dominante nel mondo intero, anche secondo Billboard. Sicuramente può aver giocato un suo ruolo, in questo, il fatto che si tratti di una cultura nata e cresciuta in America, negli anni in cui la segregazione razziale (e economica) si faceva ancora più strisciante: non più legale, e per questo scomparsa dai radar assistenzialisti dallo Stato, ma non meno sentita dalla popolazione afro- e latinoamericana.
Anni e anni di soprusi e isolamento, di lotta contro il sistema per affermare la propria voce devono sicuramente aver giocato un ruolo nel plasmare la cultura hip-hop americana, che è poi diventata il nocciolo da cui si sono evolute le sue diramazioni globali. E giustificano in qualche modo il suo guardare con sospetto all’abbraccio peloso che è in atto da parte della discografia mainstream, quella dei Grammys. La soluzione, quindi? Gestire da sé il proprio business, come hanno fatto di Jay-Z e, prima di lui, James Brown, oppure rifiutare in toto la logica (malata) del mondo, in un’ottica di indipendenza e autoproduzione. Se una di queste due strade sia quella giusta – inseguire i grandi numeri a rischio di perdere la direzione o preservare ad ogni costo un’etica irreprensibile – e se non esista invece una terza via, non sta a noi dirlo. “The answer is blowin’ in the wind”, gracchiava Bob Dylan, a bordo di una Cadillac cromata, dopo aver incassato l’assegno della Columbia per il suo ultimo album…
(Continua…)